Angelo – 2

Angelo frequentava un professionale aziendale che, a quanto sostiene suo padre, costituiva una splendente eccezione nel loro degradato panorama scolastico; avevano laboratori avanzatissimi, il bar dentro la scuola, e così via. Giusto con gli insegnanti non si era trovato, e così aveva deciso di lasciare gli studi.
– In prima elementare era chiusissimo, e le maestre mi chiamarono dicendomi che aveva dei problemi, che forse gli serviva una scuola speciale… dopo qualche anno si è svegliato, e le maestre mi hanno chiamato per dirmi che mio figlio aveva preso a botte un altro. Ma l’aveva fatto per dividere due che si stavano picchiando… ora, se fosse stato lui il violento allora sarei stato d’accordo, non si deve fare, ma così… allora, dico io, prima è timido e non va bene, ora rischia di prendersi botte per difendere un altro, e non va bene neanche… e lasciatelo stare!

La storia la raccontava il padre, mentre il figlio lanciava giusto qualche espressione eloquente, senza commentare. Nel contesto – sala informatica di un ospedale, un tavolone bianco, due carrozzine e un uomo di mezz’età – la scena sembrava intonata. Eppure, penso ora, se dovessi sceneggiare la parte di un normale Angelo diciottenne, in piedi accanto al padre che ne narra l’epopea infantile, scriverne il silenzio mi parrebbe non credibile.

– Lui è una testa dura – continuava bonariamente – uno che quando decide che una cosa non gli sta bene, non gli sta bene… così ha smesso con la scuola…
Poco dopo, ha pensato di tuffarsi in mare nel punto sbagliato.
– Eppure era un bravo nuotatore – ha spiegato il padre – è esperto di mare, non posso capire come sia successo…

Poi mi ha chiesto del furgone, ne stanno cercando uno con una pedana per caricare la sedia; qui interessa parecchio qualunque ammennicolo che possa far guadagnare un briciolo di autonomia. Almeno, interessa ai parenti.

– …Lui è pigro – mi diceva infatti, mentre il figlio voltava gli occhi altrove – potrebbe muoversi, ma… non vuole..
Certo, e più continui a dirglielo, meno vorrà. Non c’era bisogno di sapere che ha a scuola faceva l’attaccabrighe, per capire quant’è orgoglioso. Basta seguire lo sguardo quando ti dice “no”.

Un giorno è venuto ai computer con la madre, stavano aspettando che arrivasse l’educatore a dargli gli ausili per usare il pc col movimento della testa. Lei gli ha chiesto se, intanto, voleva provare a usare solo il trackball, con la mano.
Ha sbuffato un “no, vabbè” di quelli che hanno speranze di trasformarsi in si soltanto se non gli si dà occasione di diventar puntiglio. Ma quel no conteneva implicito il seguito inesorabile della conversazione – “dai, prova, che ti costa” – e quindi l’escalation del rifiuto. Un “no” “ah, ok” si può ritrattare, sperando sia stato dimenticato; da dieci no urlati contro l’insistenza non si sfugge. Tanto meno si sfugge a un no che ti è stato etichettato in fronte da a genitori dolcissimi, dal sorriso disponibile e premuroso, i quali però, prima ancora di farti parlare, ti presentano all’esterno come quello pigro.

Non so, sarà che mi ricorda tutte le etichette che diedero a me, tramandandole lungo l’infinita catena di assistenza sociale che segnava i confini della mia identità. O sarà che mi ha colpito quello sguardo più vivo di molti altri – forse solo perché contrasta con l’immobilità del corpo – ma mi piace credere di averlo visto davvero, quel lampo sveglio, ironico, acuto e tagliente.
In ogni caso, lo voglio cercare ancora.