Vite in sopravvento

[La vita ha preso il sopravvento, dicevo a qualcuno tempo fa, spiegando perché ora scrivo meno. La vita, e precisamente non la mia, ma una manciata di vite altrui.
Perciò, ho pensato che potrei raccontarvi queste vite. Chi gode il sopravvento si reputa avere una posizione migliore rispetto agli altri, recita il dizionario. E’ una definizione così contraddittoria rispetto a quel che sono queste vite – indubbiamente reputate peggiori delle altre – che, come titolo, mi pareva perfetto.

Ho cambiato i nomi, ma le storie sono vere – per quanto può rimaner vero quel che passa prima dagli occhi, dalle orecchie, poi dalla testa e arriva alle dita fino alla scrittura, e poi passa di nuovo da altri occhi, altre teste…]

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Giorgia è una signora in carne dai capelli rossi e leggeri, che ondeggia un po’ col busto sulla carrozzina e si spinge lentamente con le mani senza presa. Quando ha saputo che i cioccolatini sul tavolo li offrivo io, per il mio compleanno, mi ha fatto gli auguri e mi ha bonariamente insultato perché le davo del lei. Poi ha cominciato una complicata manovra accanto a me. Io guardavo alternativamente lei e il pc, non sapendo se quel movimento mi riguardasse o se invece fosse scortese osservarlo. Solo dopo un po’ ho capito che mi si stava affiancando per abbracciarmi.

Avevo conosciuto prima il marito, un uomo comunicativo e sorridente, che quando ascolta annuisce forte e quando parla scandisce le parole, guardandoti a occhi ben aperti, come un maestro molto preoccupato di capire e farsi capire. Dimostra interesse per qualunque cosa e attacca conversazione volentieri, in sala informatica. Quando ha saputo del mio compleanno mi ha abbracciato per gli auguri.
Giorgia, ha raccontato il marito, suonava il pianoforte, prima che un chirurgo per sbaglio le sfasciasse il midollo spinale. Aveva appena dato un esame importante, suonando due costosissimi pianoforti al suo conservatorio calabrese.
– L’altro giorno ha provato a suonare la tastiera – ha detto lui – io ho preferito non entrare nemmeno. Uscendo, ha detto: “Un disastro”. Ovvio, ora – ha spiegato, mimando la mano penzolante – preme quattro tasti insieme, come fa…

La sera si è fatto il karaoke nell’atrio dell’ospedale. Battisti, Io vagabondo, Azzurro, Acqua e sale, tutto il repertorio cantabile per cinquantenni, interpretato regolarmente in almeno due o tre tonalità diverse allo stesso tempo e con stecche allucinanti a ogni acuto.
Si è avvicinata anche Giorgia, le hanno dato due bonghi e li ha tamburellati per un po’, con poca convinzione. Volevo chiederle se le piaceva cantare – mi pareva mi avessero detto che cantava, oltre a suonare. Magari, ho pensato, la invito al concerto di domenica. Ma ho esitato ad attaccare bottone, così come esitavo con gli altri due o tre ragazzi attorno a cui vado girando da un po’, in cerca di una comunicazione. C’è una tale scarsità di argomenti interessanti a cui appigliarsi, in questo ambiente. Non è che cateteri e patetiche attività ricreative da centro anziani offrano molti spunti.
– Ti piace cantare? – le ho chiesto quando mi si è avvicinata. Lei ha scosso la testa, così ho giustificato la domanda spiegandole del concerto di coro in cui avrei cantato anch’io; allora lei mi ha chiesto quale fosse il nostro genere.
– Mah, sia classica che popolare… di classica Mozart, Bach, Schubert… – non capivo la sua espressione, doveva essere una musicista, ma non pareva granché partecipe – …hai presente, la messa di Schubert?
– Ah… io canto jazz.
Ah, ecco, jazz.
Dopo aver sopportato il karaoke fino all’ultima canzone – minacciando sottovoce di andarsene ogni volta che il repertorio scadeva eccessivamente – Giorgia si è fatta dare il microfono in mano, nell’atrio ormai semivuoto, ha chiesto la sua base musicale e, mentre i volontari arrotolavano via i cavi e spostavano i bonghi, ha cantato in portoghese Garota de Ipanema.