Quarto d’ora

Ehi, tu, avrei giusto quattro cose da chiederti – quella che in altri tempi si chiamava preghiera, ora non so, lettera a babbo natale, lista della spesa, desiderata, vedi tu.

Guarda, basta che duri quel quarto d’ora. Un quarto d’ora di lucidità per dire quello che penso, come lo penso – no, non basterebbe ubriacarmi, ci ho già provato, mi vien sonno e sto zitta del tutto.
Quindi bisogna proprio che tu mi dia una mano.

Sai quelle cose, non so, che uno fa un respirone, di quelli che partono dalla pancia, poi, improvvisamente rilassato, sorride e dice. Dice affettuosamente, ma con decisione. Guarda negli occhi, si protende un po’ in avanti. Tiene una mano.

E non ha bisogno di ridere. Questo, ecco, è il primo indizio di sincerità. L’ironia scherma e difende, la risata asseconda, ammorbidisce. Bandiamo l’ironia e la risata. Un quarto d’ora senza dover risultare brillanti o sarcastici, né simpatici e accomodanti.

E poi – questo, davvero, per favore – lancia un sasso nell’ingranaggio, stacca la corrente, fa’ come ti pare, ma inceppa le conversazioni automatiche, dài. Le risposte che si susseguono necessariamente, più della notte al giorno; il pezzo di puzzle che toh guarda questo ha quattro buchi ‘spetta che cerco in archivio quello che s’incastra, dunque, se questo è il cielo, la sfumatura azzurro chiaro presso l’orizzonte, ecco, li ho tutti impilati qui gli azzurri-chiari, adesso lo cerco.
E invece fammici mettere un pezzo di prato, che so. Anche se resta mezzo fuori dall’incastro, anche se per farcelo stare devi prenderlo a manate fino a romperlo.

Rompiamo, cazzo.

Tanto l’immagine dovuta la so già, c’è sul coperchio, chisenefrega. A me interessa quella nuova, quella coi pezzi di prato in mezzo al cielo.

Quella mia.

[Pensatemi]