Pensavo a

Quello che a trent’anni, camicia nera a fiori, passa ogni serata in un pub per uomini di mezz’età; resta vicino alla consolle del dj, dondolando a volte un ritmo solitario – fa paura quell’anonimo muoversi del corpo, svincolato dallo sguardo, gli occhi dipinti in una sola non-espressione, vuota e congelante. Non parla con nessuno, poi ordina al karaoke una canzone, e cerca di convincersi che senza una donna, sto bene anche domani.

Quello – anzi quelli, ché in questi giorni ne ho letti molti – che raccontano sui blog di eterne prigionie subite senza colpa, di madri che gli dormono nel letto fino a quarant’anni e li inchiodano alla gratitudine ("io ti curo, come puoi andartene?").

Quelli che saranno per sempre bambini – in senso per nulla poetico – perché nessuno ha creduto che potessero crescere; quelli che scrivono nel modo semplice e sgangherato di chi non è rimasto solo fuori dalla scuola, ma proprio dalla vita.

Quelli che si presentano con mi chiamo Tizio e sono ammalato, poi lamentano una solitudine inguaribile, spiegandola con un noi in carrozzina abbiamo poco da offrire – e verrebbe voglia di mandarli con affetto a quel paese, svegliarli con una secchiata d’acqua in testa, poi scaraventarli fuori dal portone in cui si sono rinchiusi e fargli sapere che il problema non è loro, ma di chi perde così tanto tempo a guardare che alla fine non riesce più a vedere.
[Ciò dopo aver trucidato tra atroci sofferenze quelli che, con parole, opere e omissioni, gli hanno instillato certe idee]

Niente, pensavo a queste cose, e mi dicevo che m’è andata proprio bene.