Palloncini

Questo pomeriggio c’era un orribile cielo bianco uniforme, di quelli che coprono metà inverno bolognese. A un tratto ho visto come una macchia, piccolissima, in alto, volava sempre più su, sempre più piccola, è sparita.
Ho letto da qualche parte che i bambini si domandano dove vadano a finire i palloncini all’elio-o-quel-che-è, e s’immaginano magari lo spazio pieno di palloncini in orbita. Io ero abbastanza pragmatica per pensare che, prima o poi, scoppiassero e basta. Brutta roba avere questo senso della realtà – cominciai a intuire la non esistenza di babbo natale non grazie a qualche compagnetto stronzo, ma solo perché presto mi resi conto che una slitta non può volare.

Il mio problema coi palloncini era un altro: mi mettevano una tristezza profonda. Erano l’allegoria della morte, incutevano un timore cupo e solenne, pronti com’erano ad andarsene per sempre. Non volevo che mi comprassero una cosa che avrei dovuto uccidere con le mie mani. 
Io non avrei mai lasciato andare un palloncino. I palloncini all’elio non tornano più. Non ne sarebbe mai esistito uno esattamente uguale, uno con le mie impronte sopra. Le mie impronte sarebbero volate via con lui.

[Credo che i palloncini all’elio possano spiegare il novanta per cento dei problemi della mia vita]