Il calcione dei Diciannovenni

Diciannovenni è l’originalissimo nome con cui l’Azione Cattolica indica un gruppo un po’ anomalo, che fa da cuscinetto tra l’epoca degli onnipresenti gruppi parrocchiali e il nulla. Comincia coi Diciottenni, raccattando da tutta la diocesi coloro che, in quinta superiore, sono disposti ad aggiungere due incontri al mese alla loro fitta agenda parrocchiale – per cui, a quanto ho visto io, si tratta di una selezione tra i giovani cattolici più cazzuti, convinti o contestatori, ma in ogni caso un po’ interessati, ecco. A parte Tosse, s’intende.
Non per niente da ogni parrocchia ne arrivano si e no due o tre.
Dopo un anno di Diciottenni fai il campo vocazionale, e t’innamori perdutamente. Del gruppo, di quelle persone, della modalità di condivisione, degli educatori e magari del prete. Dici: "cazzo, ho passato anni a deprimermi nella mia parrocchia, ho tentato invano un’esperienza pseudociellina, ma adesso ho trovato".

Fatto il campo vocazionale, cominciano i Diciannovenni: gli incontri si diradano a una volta al mese, il numero di presenti cala, l’entusiasmo anche. Per fortuna quel campo è servito a iniziare dei rapporti che tentano di mantenersi da sé, organizziamo uscite, ci vediamo spesso per i fatti nostri. Ma non basta un anno per creare la confidenza giusta, per cementare le amicizie fino in fondo. Siamo pur sempre conoscenti, in maggior parte.
Qualcuno lamenta la rarità degli incontri, che fa perder la voglia di tornare dopo tanto tempo a riprendere il filo di discorsi dimenticati. Qualcun altro si domanda a che serva discutere a vuoto sugli stessi argomenti, posto che, tanto, risposte comuni non se ne trovano. Ad altri ancora va bene così, ché non avrebbero tempo di buttarsi a capofitto in un’esperienza più impegnativa.

Lunedì, a tre o quattro mesi dalla fine dei Diciannovenni (e quindi di tutto, ché non mi risulta esista il gruppo Ventenni), ci s’è interrogati su questo. Forse il discorso degli educatori serviva anche per rispondere a quella lunga mail che gli ho mandato io, alle telefonate che ha fatto qualcuno; insomma, il problema era emerso.
La loro risposta è stata, più o meno: questo non è un gruppo, perché non vuole esserlo. Perché non è nato per questo, voi avete i vostri talenti e i vostri rapporti da sviluppare da soli, senza una struttura rassicurante a sostenervi o obbligarvi. Siete grandi e liberi, fate le vostre scelte. Trovatevi altri gruppi dove vivere l’esperienza che cercate, gruppi che siano specificamente orientati verso quel che più vi corrisponde; ognuno ha il suo modo di vivere la fede, far volontariato, e così via. 

Ora.
Capisco l’intento di mollarci un calcione educativo verso il mondo, di responsabilizzarci nel coltivare amicizie autonomamente, e così via. C’è del vero e del buono, c’è quell’aria di libertà e rispetto delle diversità di cui a volte sentivo la mancanza in gruppi fortemente "comunitari" come i sangiacomini, che grondano senso di appartenenza e corrono sempre il rischio di chiudersi su se stessi. Questo invece è un calcione tipicamente Ac.
Eppure, mi resta una perplessità.

Per quel che ho vissuto, penso che i rapporti crescano solo condividendo qualcosa. Non voglio andare sul metafisico: parlo di un qualunque pretesto che consenta di avere argomenti in comune diversi dal tempo che fa e dalle mezze stagioni; meglio ancora – ed è questo per me il valore dei gruppi cattolici – un pretesto che ti costringa a mettere in gioco la tua esperienza personale, ad esporti su livelli che altrimenti resterebbero sepolti per anni, prima di essere indagati.
Soltanto certe amicizie già salde, magari di lunga data, possono reggere alla non-condivisione di una quotidianità, e trovano il coraggio di telefonarsi senza una scusa per farlo. Le altre, quelle ancora agli inizi – come le nostre – hanno bisogno di un filo conduttore cui aggrapparsi.
Non credo che questo avvenga perché non ci si vuole prendere la responsabilità di coltivare da soli i rapporti: mi sembra molto naturale che, anche con la migliore volontà, sia difficile per chiunque entrare in confidenza con una persona non avendo il tempo e le occasioni necessarie. Con ciò non sostengo che avere occasioni di condivisione sarebbe sufficiente: si può convivere per anni in una classe restando appena conoscenti. E’ ovviamente fondamentale la volontà di aprirsi, di cercarsi, di tentare un dialogo e magari azzardare un salto oltre le frasi convenzionali – e queste sono cose che accadono tra singoli. Dico solo che, spesso, alcune circostanze esterne aiutano a farle accadere.

Questa è la confutazione razionale della tesi avversa.
Le mie ragioni affettive forse sono altre. Ai diciannovenni mi è sembrato di trovare il mio posto, più che in ogni altro gruppo. Stimo immensamente gli educatori, mi piace l’aria in genere accogliente di quelli che conosco poco e ho molta (troppa?) fiducia nell’amicizia in costruzione con alcuni di quelli che conosco meglio. Sono a mio agio con persone che la pensano diversamente tra loro e a volte diversamente dall’istituzione, gente che ha dubbi come me e non teme di dirlo.
Mi sono creata (da zero, ché non mi conosceva nessuno) un ruolo che, tutto sommato, sento più mio di tante altre maschere: sono quella che parla, quella che fa, che spinge un po’ gli altri, che si sente responsabile del buon andamento del gruppo e se le gira un’idea in testa scrive una letterona al prete, quella che quando si esce telefona in qua e in là per recuperare chi non si fa mai vedere. Non sono mai stata niente del genere in nessun altro posto.

Perciò mi dispiacerebbe se la prossima estate, finiti gli incontri e passato il tempo necessario a dimenticarsi, di quest’esperienza non mi restasse che un buon ricordo e, forse – ma già sarebbe tanto – un paio di amicizie saltuarie.
Certo, mantenere vivo un gruppo senza coordinamento dall’alto sarebbe una sfida interessante.  

E ho ancora qualche mese per trovare qualcun altro che abbia voglia di tentarla.