Di paranoie e credibilità

Non so bene da dove cominciare.
Potremmo iniziare da quando ero seduta sul divano, con l’educatrice nuova, e le chiedevo insistentemente cosa ci facessero, quelle come lei, lì con me. Non mi piaceva il nome, “educatrice”, mi dava l’idea che io avessi più bisogno degli altri di essere educata, il che mi faceva sospettare di avere qualche malattia mentale.
Anche perché parlavano con mia madre di là, oltre la porta della cucina, e non sapevo mai cosa dicessero. Sapevo vagamente che si svolgevano riunioni su di me, che esistevano cartelle a mio nome e che diverse persone, alcune delle quali non mi avevano mai visto, si occupavano di me.

[E’ così che si inizia a diffidare. Ci si sente controllati da entità nebulose e distanti, che, proprio in quanto sconosciute, non si sa bene fin dove arrivino; non si capisce fino a che punto bisogna difendersi, e allora per non sbagliare si comincia a difendersi sempre]

Oppure potrei dire di quella volta che papà mi comprò un arco bellissimo, grande, che avevo desiderato a lungo, e pochi giorni dopo, durante un litigio, lo ruppe davanti ai miei occhi, appositamente, per dimostrare che sapeva punirmi. O di quell’altra volta in cui io avevo progettato bene come scappare, sapevo che avrei potuto raggiungere la porta del corridoio e forse mia madre prima che fosse troppo tardi, e invece due braccia mi presero su dalla sedia, maledizione, avevo dimenticato di mettere la cintura, e lì, sospesa in aria, capii che non potevo più fare nulla, che non c’era più modo di liberarsi dal suo potere

[Per impotenza si urla, si urla e si piange, perché non resta più altro da fare. Piangevo molto da bambina, piangevo urlando, illusa di dare più forza a richieste che non ne avevano alcuna. Sapevo che avrei preso ceffoni, ma non smettevo di provarci.]

potere che da un certo punto in poi non si espresse più tramite schiaffi, ma solo risatine, risatine da bulletto, quello che ti prende per il culo, tutto fiero di averti fregato anche stavolta, di essere stato più intelligente, o solo più fortunato. Ogni tentativo di essere grande falliva in una risatina, per la serie ci hai provato, ma sei ancora troppo stupida, nemmeno nello scegliere i vestiti ero abbastanza brava, senz’altro mi sfuggiva qualcosa di palese che mia madre sapeva bene – ecco dove devo aver imparato il maestrinaggio – e anche i libri che leggevo erano sempre troppo stupidi, così come, ovviamente, i tentativi di tenere qualcosa nascosto,

Р̬ stato difficile, per un certo periodo, tenere nascosto qualcosa, non potevo nascondere nemmeno quando mi scappava la cacca

e così è stato un attimo cadere nel ridicolo, vedere ogni tentativo di affermazione trasformarsi in patetiche velleità di un’eterna adolescente, sempre guardata dall’alto, oggetto di gentile condiscendenza – la stessa con cui si lascia che i bambini giochino a fare i grandi, tanto si sa bene che è solo un gioco, che sono i veri grandi ad avere sempre in mano, fermamente, il controllo della situazione.

[E qui nasce la vergogna, si smette di comunicare qualunque cosa per evitare che arrivi la derisione, si evita di mostrarsi adulti perché non ci cada sulla testa la smentita, per non essere guardati come poveri idioti.

Molto meglio nascondersi, ora che finalmente si può, godersi il sottile piacere di starsene dietro una tapparella chiusa, sicuri e caldini in un posto dove si riesce a stare soli, dove non mi troverà nessuno, al riparo dalle prese in giro e dai fallimenti.]

E la paura di essere ridicoli si estende ai contesti extrafamiliari, grazie alle gentili vecchiette, alle carezzine sulla testa, allo sguardo di incerta diffidenza che leggo negli occhi di chi si domanda se sarò poi attendibile, se avrò davvero l’età che millanto, se non farebbero bene a parlare coi miei genitori, se non sia meglio assecondarmi, quando mi arrabbio, perché vuoi mai che dipenda da qualche disturbo comportamentale, o anche soltanto dalla frustrazione per l’ingiustizia naturale che da sempre mi affligge.

Devo essere più equilibrata, più normale di tutti: difendere i miei diritti ma senza eccedere, o sarei una rabbiosa frustrata; avanzare dubbi ma non insistere coi sospetti, o sarei paranoica; tentare critiche ma morbidamente, o sarei nichilista. Perché la mia credibilità con gli estranei è appesa a un filo

– l’ho visto al tirocinio, con gli utenti accolti o respinti sulla base di un’intuizione, per una frase fuori posto, un abito sconveniente o un’incoerenza nel racconto

e da essa non dipende soltanto il mio sense of agency o la mia autostima, ma, a quanto pare, la possibilità di veder riconosciuti bisogni e non capricci, problemi reali e non deliri, diritti e non contentini.