Faccio colazione

parco davanti alla mia finestra

di fronte a qualcosa del genere – finalmente riesco a rivedere una mattina, dopo giorni di nottambulismo; ho acceso la radio in sottofondo, e mi è sembrato strano avere di fronte un po’ di vuoto per pensare.

Un tempo passavo ore intere a parlare tra me e me. Mi raccontavo di tutto, parlavo con chiunque.
Non so se fosse una cosa buona o cattiva, ma ero molto in contatto con me stessa. Mi collocavo ogni volta nel punto giusto del mio grafico esistenziale, verificando cos’avevo fatto fino ad allora, e dove volevo andare.
Come corollario, avevo un sacco di materiale per post.

Poi è successo. E i miei monologhi si sono trasformati in un ossessivo, vorticoso ruminare quell’unico argomento. Per mesi. Dialogare con me stessa è diventato disturbante, così, appena ho avuto le forze per svincolarmi, ho cercato ogni scusa per mettermi a tacere.
Senza accorgermene, sono diventata incapace di passare un minuto senza fare nulla – e un cellulare col wireless non aiuta. Controllo facebook anche mentre sono in bagno. Se mi sfiora un pensiero qualunque, lo invio per sms.
E’ così difficile starci di fronte da sola, ai pensieri, non sai mai se a quello poi se ne attaccherà un altro, e un altro ancora, fino a condurti là dove non vuoi arrivare.

Ho iniziato a non sopportare la casa vuota, quella che avevo lottato per ottenere, e che una volta adoravo. Mi piaceva avere uno spazio liberissimo, dove potevo canticchiare, condire fette di pane e salmone o giocare con la pasta di sale. E, naturalmente, parlare da sola finché mi pareva.
Adesso questa casa cerco di riempirmela il più possibile, e quando sono costretta alla solitudine perlopiù mi attacco al computer, quella magnifica droga, o al limite studio a testa bassa, con meccanica determinazione.

Così, ho un po’ perso le coordinate. Mi si è ristretto lo sguardo, ho zoomato sui dettagli, sempre gli stessi, sempre più grandi, sempre più isolati dal resto, scollegati da un senso.