‘U brutto male

nonni al loro cinquantesimo

La nonna è morta.

C’è una semplicità naturale in queste poche parole. Poi ci ingegniamo ad appannare la realtà dietro rassicuranti perifrasi – “è mancata”, “ci ha lasciati”, e di lì peggiorando – perché incartare le cose nel linguaggio aiuta a separarle da se stessi. Invece, semplicemente, è morta. Lei avrebbe detto di un bbrutto male, come si usa giù quando non si ha il coraggio di dire cancro. Anche questo dovrebbe essere un modo per aggirare l’asprezza della malattia, una specie di rito scaramantico per scacciarla; come se dicendone il nome si rischiasse di chiamarla e farla arrivare più in fretta.
A me però hanno sempre inquietato di più le allusioni lanciate con aria misteriosa, in un fuggevole sgranar d’occhi, alzando la testa e soffiando in un sospiro: ‘u bbrutto male. L’innominato, tu-sai-chi.

Ma noi non sappiamo chi, né come. Abbiamo solo dato un nome alle cellule, e a quel che accade quando impazziscono – buffa, quest’immagine. Le cellule, annoiate, stanche dopo settant’anni di routine, un giorno sentono fischiare il treno e diventano pazze. Allora qualcuno le porta in clinica, e il narratore dice no, voi credete siano impazzite, ma questa è solo la conseguenza naturale di ciò che han sempre fatto. Già, sono vissute: si muore perché si nasce.

Eppure, non basta. Continuiamo a non saper bene come. Com’è possibile che prima uno parli, pensi, si muova, e poi di colpo puff, fine. Si sorride delle spiegazioni scientifiche, ritrovandosi di fronte al contrasto disarmante fra la vita ricordata e la concretezza attuale della morte; non coincidono, si respingono, non si credono l’un l’altra – tu esisti, adesso, morte? e allora prima come potevo esistere, io, vita? 
La morte mi ha girato intorno a larghe spirali, partendo da lontano, da chi quasi non conoscevo – e ancora è rimasta a sicura distanza, ché non incontravo la nonna da un paio d’anni, giusto a volte l’ascoltavo lamentarsi per telefono. Tu guarda, l’ultima volta l’ho vista nel filmino per la Gras, a parlar della guerra.

Prima, la vedevo d’estate – sempre più vecchia, più incazzata, più avvolta in scialli e fazzoletti per nascondere la testa pelata. Zoppicava lì in campagna con un ramo per bastone, perciò la Cri la chiamava mosè – beh, il piglio l’aveva. Gridava ‘o Turiddu! per la valle finché il nonno ca paci ca paci non tornava, col suo cesto di frutta o la motofalce in mano e un sorrisetto complice sotto i baffi, come a dire t’ho sentito bene ma ho fatto tardi apposta.
Chissà che farà, adesso ch’è solo, nonno Turiddu. Avrà gli occhietti azzurri sempre più stretti sotto la pelle, nascosti a guardare ricordi persi chissà dove, che più non sa nemmeno lui. Nessuno gli romperà le scatole urlandogli di tornar dalla campagna, né leggerà quei biglietti con la lista della spesa; non bestemmierà giocando a carte, ché gli restano soltanto i solitari, e non dovrà costringersi a star vivo per far compere o sistemare burocrazie e certificati che non capisce.
Forse, di star vivo si dimenticherà. Passerà le sue giornate all’orto, o fra i limoni, parlando con gli alberi che s’è sempre ostinato a piantare, ignaro del tempo. La nonna glielo ricordava sempre, di non piantare, ché tanto non sarebbe vissuto abbastanza per vederli cresciuti – e lui, divertito a sfidar la morte, alzava sornione il muso e le spalle, ecche ddebbo fari, Maria.

Lei era più vittimista, come molti vecchi che provano una specie di tetra soddisfazione nell’elencare per la millesima volta i loro acciacchi, mendicando compassione. Aveva mezzo diseredato mia sorella, colpevole soltanto d’esser scappata prima di me perché più grande; io forse ho scampato l’anatema comprandola con qualche cartolina e una telefonata ogni tanto. Sì, è un po’ squallido, me ne rendo conto; ma mi sembrava peggio fingere d’interessarmi con smaccata ipocrisia. Non ho rapporti umani nella mia famiglia stretta, figuriamoci un migliaio di chilometri più in là. Niente di personale, solo… solo, ecco, non c’era proprio nulla di personale. Nel senso che non ci siamo mai conosciute granché, ciascuna incastrata nel ruolo da giocare, io nipote indifferente tu nonna insoddisfatta, impossibile cambiare.

Così, mi resta una manciata di ricordi estivi, qualche risata alle battute trash dei cugini dopo cena – come ridevi, con la panciona sballottata qua e là – i piedi sulle tue ginocchia, le ingiurie al cane, lo scricchiolio a ogni passo e ahiahimammitta – chissà cos’hai detto morendo, sarebbe stato buffo dire ancora quel tuo intercalare lamentoso.
Papà voleva che tornassi quest’estate, immagino per te. Non credo l’avrei fatto. Perché sono egoista, probabilmente; o per non vederti così, o per scappare, o perché schifo l’ipocrita cortesia e le cose che si fanno per asciutta convenzione, senza sentirle, senza crederci. Ma il problema non si pone, ché non avrei fatto in tempo.
Ciao, nonna maria rosa…