Monthly Archives: Maggio 2007

Lasciarsi raggiungere

Avevo scritto un messaggio, per ridere – tanto di lui ridono tutti. Ma poi l’ho cancellato tutto a ritroso, parola per parola.
Perché non avevo di fronte una macchietta, un buffo attore – devo essermene accorta in quel momento strano, quando mi sono imposta di guardarlo in faccia – ma forse una richiesta, o comunque una possibilità; e io sto tradendo ciò per cui ho lottato una vita.
Si può tradire una vecchia idea in cui non si crede più, anzi, si deve. Ma quella (quella che un incontro non si deride, si scopre, e non sai mai quel che ti porta) è una delle poche cose in cui credo ancora.

["Gareggiate nello stimarvi a vicenda" è l’ipocrisia più impossibile e affascinante che conosca]

Invece la dimentico, perché inseguire se stessi è più interessante che lasciarsi raggiungere dalla vita. Uno si fa il programmino in testa, prevede i rapporti, scommette su questa o quella persona – e se un’altra fa capolino e chiede permesso, giù a domandare: ma l’hai timbrato il biglietto alle mie aspettative? Nel mio archivio di utopie c’è scritto che potrai darmi qualcosa? No, dico, ché se non c’è scritto aria, qui abbiamo gente più importante da aspettare.

Adesso, stando china a contemplare i calcinacci di un fallimento – o forse ancora è la prima polvere che si sfarina minacciando dal soffitto, e avverte: esci! – mi chiedo quante cose potrebbero avermi raggiunto ed essere passate oltre, mentre non guardavo.

Non mi riguarda

Ho sentito litigare nel cucinotto parrocchiale per una questione di autorità, permessi e musical. Mi sono affacciata un po’, ho ascoltato, sono uscita.
Con la libertà di chi entra in galera, passeggia per i corridoi sorridendo alle sbarre, saluta e se ne va.

[Vi siete scelti le vostre catene]

Voce

Giravo nella luce irreale di un temporale sospeso
– silenzio e nessuno, qualche gazza a becchettare
e io cercando le parole, come fosse un hobby
scegliere una voce per la morte
e la vita gialle sul prato verdi scure contro
il cielo
ombre –

Chiamava una nonnina – non sarà
lei, vedrai che cerca un cane, non
è per me non chiama il mio nome non
lo sa infatti non gliel’ho mai detto –

Invece Salve! e d’accordo mi accompagni
giriamo insieme, posso rallentare…

Tanto vita e morte ridacchiavano di me
dicendo che cercavi, una voce
per chi parla accadendo?

Ma allora qualche prete lucido esiste

Da un’intervista al vescovo Bettazzi 

«Sì, la protesta [dei gay durante la processione della Madonna di San Luca] c´è stata e ci impone una riflessione. Questa "prima volta" dimostra che il momento è caldo e allora tutti dobbiamo cercare di ragionare. Io credo che, se non stiamo attenti con il clericalismo, noi stessi alimentiamo l´anticlericalismo. Vede, non è certo la prima volta che la Chiesa vive momenti di scontro. […]»

Nelle stesse ore della contestazione bolognese, a Roma c´era il Family day…
«Potrebbe essere utile, un´iniziativa come quella, se servisse davvero a pensare alla famiglia e al suo ruolo. Ma da piazza San Giovanni ho ricevuto anche un sorpresa: ho visto in tv che c´erano tanti politici che nulla hanno fatto per la famiglia e poi sono scesi in piazza per esaltarla. Sì, la loro presenza mi ha davvero stupito».

C’è stata anche una forte protesta contro i Dico.
«Come se questo fosse il problema… La legge dei Dico non obbliga nessuno, assicura solo garanzie legali che del resto i politici (quelli stessi che difendono la "famiglia cattolica") si sono già attribuiti. Quando penso alla crisi della famiglia, non vedo certo i Dico in prima fila. Ci sono i problemi della casa, del lavoro, e crescere figli diventa sempre più costoso. Queste sono le difficoltà da affrontare».

[Un alleluja allegro, schitarrante e azionecattolicoso per Bettazzi, prego. D’ora in poi guarderò con occhio diverso le sue prediche monotone del giorno di San Lazzaro]

Dovresti smetterla

di guardarmi negli occhi.

[Perché poi i miei restano lì e non tornano più indietro]

Trasgressione

suono la tastiera

 

Sì, lo so che avrei dovuto fare solo un’oretta di movimento al giorno in una bacinella d’acqua e sale.
Ma manca poco alla fine dei venti giorni. E poi tanto ho visto le lastre, e secondo me dovranno operarmi di nuovo, c’è un osso storto. Quindi, peggio di così.

Almeno, prima di farmi rinchiudere di nuovo tra ferri e ferretti, mi sono fatta una suonatina. Ché non lo facevo da tanto tempo.
E’ un po’ frustrante scoprire che adesso con la destra prendo faticosamente una settima, e il mignolo non risponde ai comandi (insomma, per Allevi c’è tempo), però dai, meglio di niente.
Poi chissà, magari fa bene. Forse Einaudi scrive pezzi lenti, ripetitivi e facilissimi apposta per riabilitare i fratturati.

Di quello che non siamo

Guardandoti saltellare cantando, abbracciato a una discepola – chissà se sai anche essere amico, o soltanto papà? – ho pensato che forse m’affeziono per nostalgia.
Di quello che non sono mai stata – mentre per te è così facile e leggero essere bambino
Di quello che non siamo mai stati – anche se qualche sera (troppo tempo fa) m’era sembrato di parlarti con sconosciuta sincerità, allora in uno scatto di coraggio idiota
ho venduto il mio rimpianto sterile
per un’ingenua nostalgia di futuro.

 

Calce o cenere

[Oggi fabbrichiamo spilli con Vittorio Sereni, La spiaggia. Ma stavolta non mi va di ironizzare troppo, ché questa poesia crea magnificamente un’atmosfera desolata e sospesa, una bolla troppo bella per scoppiarla punzecchiando]

Una spiaggia, una spiaggia deserta magari di sera, coi lettini accatastati e un altoparlante spento appeso al gazebo vuoto del bagnino. Ma dall’altoparlante, a un tratto, una voce metallica e saccente:

Sono andati via tutti –
blaterava la voce dentro il ricevitore.
E poi, saputa, – Non torneranno più -.
 
Qualcuno cammina sulla spiaggia, pestando sabbie mai prima visitate, eppure non intatte: qua e là una toppa, cioè montalianamente una macchia – quindi un errore, un’interruzione della luce come le macchie solari – ma anche la toppa di una serratura, dunque la porta per un altrove; oppure un brandello di stoffa appiccicato goffamente a coprire un buco, un brandello che non c’entra col resto e che nasconde una mancanza, un vuoto sotto.
In ogni caso irregolarità nella sabbia, come impronte.

Ma oggi
su questo tratto di spiaggia mai prima visitato
quelle toppe solari… Segnali
di loro che partiti non erano affatto?
E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.
 
Impronte di chi? Brandelli a coprire cosa? Serrature che aprono quali porte? Segnali di quelli che sembrano partiti, morti? Allora ti volti in fretta sperando di stanarli, come ti camminassero dietro, quatti quatti – ché magari se fai presto s’infrange l’aria di vetro e li becchi prima che di nuovo s’accampino di gitto case alberi colli.
Invece quelli zitti, come niente fosse.
– Cos’è che muore? – avrà pensato quello sulla spiaggia (che ormai sei diventato tu, lettore, dato che mi piaceva la seconda persona). Forse gli sarà apparso lo spiritello petulante di Seneca a dirgli che cotidie morimur e che il tempo davvero perduto, davvero morto, è solo quello sprecato.
Ma l’omino sulla spiaggia ha soffiato via lo spiritello scuotendo la testa, e s’è detto fra sé:

I morti non è quel che di giorno
in giorno va sprecato, ma quelle
toppe d’inesistenza, calce o cenere
pronte a farsi movimento e luce.

Allora i morti sono buchi nell’essere, rattoppi fatti di nulla ma anche vuoti dove infilare una chiave. In altre parole (ché l’omino sa di esser stato un po’ criptico, quindi precisa): calce o cenere. Calce, cioè quel che fissa, salda, costruisce e immobilizza; cenere, quel che rimane di un falò, il cadavere della luce, i resti polverizzati incapaci di riaccendersi.
E l’omino, che evidentemente a polverizzarsi non si rassegna, ti dice che la morte, la morte ch’è calce immobile e cenere spenta, è pronta – proprio pronta, lì in posizione per scattare, compressa ai blocchi di partenza – pronta a farsi movimento e luce. L’inesistenza, l’immobilità e il buio che si ribaltano, s’accendono e rivivono.
Poi respira a fondo, quello che cammina sulla spiaggia (sempre che ci sia: o forse a parlare era sempre stata soltanto un’anonima voce d’altrove?), e concludendo predice a se stesso (o a te?):

Non
dubitare, – m’investe della sua forza il mare –
parleranno.

[Ora – dato che ora, se proprio non avete i prosciutti sugli occhi, queste strane parole dovrebbero aver preso significato – come nelle migliori tradizioni scolastiche, rileggetevela tutta di seguito e godetevela.
Poi ditemi che non è bella.]

Filo

Stasera avrei dovuto leggere poesie – sì, l’esame, ma forse lo rimando, ch’é troppo bello per affrettarlo – ma ce n’era un’altra da guardare, dispiegata lì sul parco le luci gialle la nuvola leggera i rombi grigi allontanarsi la sera farsi notte… il vecchio tempo che come sempre s’approfitta, io mi fermo appena e quello sale a raccontare (c’erano altri, ricordi?, chissà dove sono, c’era anche Dio, e poi? Se ci ritrovassimo tra vent’anni, dove? Diventati cosa? Io mi vedo così uguale… almeno allora saprò delle scommesse vinte o perse, e riderò di aver sbagliato tutto).
Sarà che da un po’ non mi chiedevano – ma tu mi vuoi bene? – e alla domanda s’è impigliato un filo di maglione, di quelli che a tirarli vai a scucire una vita intera.

[Mancava un po’ quella specie di vecchio affetto, raggelato nei rapporti intellettuali]

Pollame e poesie

Inauguriamo la nuova rubrica "Fabbrica di spilli" (la seconda parte del titolo era troppo volgare per ripeterla periodicamente, suvvia) con Umberto Saba.
 
A mia moglie
Tu sei come una giovane
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell’andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull’erba
pettoruta e superba.
È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio,
Così, se l’occhio, se il giudizio mio
non m’inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun’altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle,
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.
[…]

(Qui trovate il testo completo)

Cioè, dà a sua moglie della gallina. E, siccome sono sicura che nessuno di voi ha cliccato su quel link, vi informo io che nelle strofe successive la paragona, nell’ordine, a una vacca, una cagna, una coniglia, una rondine, una formica e un’ape. Eh, non ci sono più le donne angelo di una volta. I capei d’oro a l’aura sparsi sono diventate piume che s’arruffano.
Al ricevere una poesia simile, qualunque banale moglie si sarebbe incazzata come una iena, suggerendo così al candido partner una similitudine animalesca più appropriata. Saba aveva appunto una moglie banale, che s’incazzò. Ma noi non siamo banali! Siamo maestri nella fabbricazione di spilli per inculare mosche: per cui sapremo trasformare questi versi da testo promettente per il seguito di Cara ti amo a vero pilastro della letteratura italiana.
Vediamo perché.

 

chiesa affollata di animali da cortile

 

Secondo il commentatore di quel pacco di fotocopie bertoniane, questa immagine fotografa perfettamente la poesia considerata: il vocabolario del cortile invade il classicistico edificio formale del testo. In altre parole, nessuno prima aveva messo i polli in endecasillabo. Insomma, la struttura è una canzone leopardiana, il verso pare libero ma nasconde endecasillabi e settenari, pullula di periodi aggrovigliati (sistemate un po’ questo puzzle di parole: e verso te gli orecchi / alti protende e fermi) e di termini aulici (ditemi chi di voi, per dire "sei scazzata" direbbe "ti quereli dei tuoi mali"); MA tutto ciò convive, appunto, con gabbie e pollastre arruffate.
Ora avrete capito perché lo sconcerto dei lettori del tempo è ben rappresentato dall’espressione della cagna in primo piano.

Eppure l’anonimo commentatore non è soddisfatto. Sostiene infatti che non sia possibile separare così nettamente forma e contenuto: và, se una gallina si ritrova in una chiesa significa che qualcuno ce l’ha portata apposta. Potrei dilungarmi sui perché e i percome, ma io voglio che arriviate alla fine di questo post, e mi rendo conto che una dissertazione del genere potrebbe dissuadérvi (o dissuàdervi? Si accettano scommesse) da tale nobile proposito. Mi limiterò quindi a lasciarvi un’immagine simbolica della fusione forma-contenuto.

 

gallina con colonne nella panza

 

E ora veniamo all’aspetto veramente sovversivo della poesia.
Dovete sapere che Saba, conoscendo le acrobazie interpretative dei sodomizzatori di mosche, pensò bene di pararsi il didietro scrivendo una bella Storia e Cronistoria del Canzoniere, in cui spiegava genesi e significato dei suoi testi. Lì parla anche di A mia moglie, definendola una poesia infantile: se un bambino potesse sposarsi e scrivere una poesia, scriverebbe questa.
Vedetevelo, Saba, che cerca di nascondersi dietro un tavolo mentre la moglie gli tira dietro i piatti, e con un sorrisino innocente da candido fanciullo dice tremando "ehi, io non pensavo che vacca significasse troia, davvero, sono come un bambino". Fossi la moglie, passerei al mattarello.
Insomma, non è credibile. Quell’infantile deve voler dire qualcos’altro.

Facciamo un passo indietro. Il buon vecchio Contini sentenziò che Saba era psicanalitico prima della psicanalisi. Qualunque cosa voglia dire, intuiamo che per capire il nostro caro nevrotico (sì, perché Saba era nevrotico e finì sotto psicanalisi lui stesso) potrebbe essere utile inserirlo nel contesto freudiano di primo novecento.
Da questo punto di vista, cosa vuol dire infanzia? Lego? Canzoni degli 883? Dinosauri di gomma? No! Andare al mare nudi? Ecco, c’entra già di più: secondo il nostro critico, infatti, infanzia significa assenza di tabù.
Gli esseri umani hanno deciso che la gallina rappresenta la stupidità, mentre la vacca, la cagna e la coniglia il sesso. Di conseguenza, paragonarli a una donna è un tabù. Eppure, nemmeno quella pettegola della gallina sa dei trascorsi libidinosi della vacca, né probabilmente la vacca vi direbbe che la gallina è stupida. E neppure un bambino. (Oddio, per me i bambini sono stronzi anche con gli animali, ma questo è un dato che farebbe crollare la nostra argomentazione e quindi lo ignorerò).
Insomma, non poter dare della gallina alla propria moglie è una convenzione; da un punto di vista infantile non ci sarebbe niente di scandaloso. Saba allora attua consapevolmente una regressione, in senso psicanalitico, al di qua del tabù convenzionale, come dire "oh, non è che io non sappia che certe cose non si dovrebbero dire; anzi, proprio perché lo so e mi sono rotto, decido di riprendermi a forza il mio stato naturale e primigenio".
Chiaro? No, ma non importa, tanto l’esame devo darlo io.
Oh,
cazzo,
l’esame.
(Tipico esempio ungarettiano di parola-verso. La struttura tipografica piramidale rappresenta la pendenza fisica dalla cui cima l’esaminanda rotolerà inesorabilmente verso il basso, cacciando l’ultima craniata sul puntino che termina il componimento.)

Oh, io volevo spiegarvi anche come Saba ha rivoltato l’Amor Cortese, sostituendolo con una teoria new-age ricca di contaminazioni cielline e vagamente misogine; ma mi dicono dalla regia che dovrei smetterla di sparare stronzate e andare a studiare.