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Good luck, ovunque tu sia

– Buongiorn.. buonasera, scusi questo treno va a Milano?

Alzo il viso dal libro, c’è un ragazzo magro e scuro, con uno zaino in spalla. Tu non ce l’hai il biglietto, si vede.
– Sì sì – rispondo.
Lui si siede dall’altro lato del corridoio, nella fila davanti a me, e inizia a sfogliare la rivista Frecciarossa abbandonata sul tavolino. Mi chiedo se la stia leggendo veramente.
La prima classe è completamente vuota, a parte me e lui, per quanto riesca a vedere dal mio posto. Che spreco, questo coso corre verso nord tutti i giorni semivuoto, e il mio biglietto costa 60 euro.

Arriva il controllore, chiede il biglietto al ragazzo, che ovviamente non ce l’ha. Allora gli chiede se ha i documenti, ma lui scuote la testa.
– Alzati, muoviti forza – lo esorta il controllore, – e te ne stai pure in prima classe!
Osservo che parlare con uno straniero senza biglietto autorizza all’uso del tu e di un registro colloquiale. Il ragazzo si alza senza dire una parola e senza opporre resistenza, seguendo il controllore nello spazio tra le due carrozze, vicino alle porte.
– Ora te ne stai qui, e alla prossima stazione scendi – gli ordina.

Dopo cinque minuti, il ragazzo ritorna nella carrozza deserta e si siede nel posto di prima, riprendendo in mano la rivista. Penso che, in fondo, i posti sono tutti liberi e non disturba nessuno, perché dovrebbe starsene un’ora in piedi? Beh, certo, non ha pagato i 60 euro che ho pagato io per quel privilegio.

Lo guardo e ripenso a quel che aveva detto: non ha i documenti, e se non ha i documenti c’è una sola possibilità, è clandestino. Se è clandestino verrà espulso, forse ha viaggiato per mesi per qualche deserto, investendo nel viaggio tutti i suoi soldi, ai posti di blocco africani i militari lo avranno ulteriormente derubato e magari picchiato, poi ha rischiato la vita su un barcone, è riuscito ad approdare sano e salvo, ha scroccato treni senza biglietto per giorni; e se sale sui treni senza biglietto sa che rischia di esser buttato giù alla prima stazione, questo significa che è disposto a dormire ovunque lo scarichino, lui solo col suo zaino, sperando nel prossimo treno per arrivare a Milano – e forse da lì verso qualche altro paese, o magari là lo aspettano degli amici o qualcuno che gli ha promesso uno pseudolavoro; e ora è molto vicino alla meta, dopo tutto questo tempo, c’è quasi arrivato, deve solo sperare che non lo prendano e non lo sbattano in un Cie a perdere gli ultimi pezzi di dignità, prima di essere spedito su un aereo verso il punto di partenza, come quando tiri male i dadi e cadi sul ritorna al via,

– Ah ma allora non ci siamo capiti, – ripassa il controllore – adesso tu vieni con me
dice al ragazzo, che in silenzio si alza, lo segue
e sparisce.

Chi ha paura del profitto?

Premesso che non ho ancora capito se e come votare il referendum sull’acqua, vorrei fare una riflessione su un tema che c’entra poco col referendum, ma è stato tirato in mezzo molto spesso: sui beni naturali e fondamentali per la vita, non si può fare profitto.

Su questa base, vi invito a vivere di sola aria, perché mi pare che sia l’unico bene necessario alla sopravvivenza attualmente gratuito. Il cibo, la casa e i vestiti, ad esempio, si pagano, e non a prezzi calmierati da “settore pubblico”, paghi pure il profitto di chi te li vende, e lo paghi profumatamente. Non mi pare che qualcuno si sia mai scagliato contro la Pomì perché il signor Pomì vuole guadagnarci, e farsi le vacanze a spese di tutti i mangiatori di passata di pomodoro. Forse, se non ci guadagnasse, la sua passata farebbe ancora più schifo perché non avrebbe incentivi per farla meglio degli altri.

Se vogliamo fare filosofia sul modello economico più Giusto e Vantaggioso per il Mondo, possiamo pure abbandonarci a simpatiche speculazioni su comunità solidali che vivono di gratuità, o su efficienti (…) Stati comunisti dove i beni fondamentali sarebbero garantiti a tutti. Quando diventerò Dio provvederò a riformare il pianeta in questa direzione, di certo molto affascinante. Nel frattempo, preferisco ragionare pragmaticamente chiedendomi come trarre il meglio (ed evitare il peggio) dal mondo reale che abbiamo attorno.

Posto che di questo mondo reale fa parte anche il profitto, cosa significa trarne il meglio?
Partiamo dal presupposto che la gente lavora, crea, innova sulla base di una motivazione. Sarebbe molto interessante rilevare in qualche modo il peso delle motivazioni morali, ideali o psicologiche, tuttora molto sottovalutate. Tuttavia sono fattori poco quantificabili e difficili da “manovrare” per spingere le persone in una direzione o in un’altra.
Molto più immediato e universale usare a questo scopo il profitto economico.

Non vedo niente di male a sfruttare il potere incentivante del profitto, a patto che esistano due condizioni:
1) Deve incentivare la qualità, ovvero essere vincolato all’offerta di un buon servizio. Se solo le gare d’appalto funzionassero…
2) Deve essere affiancato da uno stato sociale efficiente. Il Pomì me lo pago, ma, se proprio non posso, chiedo un sussidio o vado alla mensa dei poveri.

Rileggendo questo post, mi pare cosparso di banalità, che quasi tutti condividono senza nemmeno pensarci. Ma allora non mi spiego questo improvviso stracciarsi le vesti all’idea che qualcuno guadagni sull’acqua (ripeto, il discorso non si riferisce al merito dei quesiti referendari, ma all’uso spropositato di questa argomentazione a sostegno del Sì. Che magari si può sostenere comunque, ma per altri motivi). Anzi, mi pare già tanto che l’acqua non sia privata e non lo diventi mai (ribadisco, per i meno informati, che il referendum non è contro la privatizzazione “dell’acqua”, ma della gestione dei servizi idrici).
I campi di grano sono privati, gli allevamenti di animali sono privati, tutto quel che mangiamo è privato, a meno di non staccare bacche da un parco pubblico – e anche lì, non sono sicura che si possa fare. Forse questo non è giusto, ma allora prendetevela con le enclosures.

— Postilla referendaria riguardo a quanto (non) ho capito finora —

L’acqua è, e resterà, ancora pubblica. Il punto è solo capire se fa più inciuci il pubblico o il privato, chi garantirebbe più trasparenza e più investimenti sulle reti idriche. Non vedo niente di ideologico in questa valutazione, è meramente pratica. Per il momento, non ho individuato delle ragioni nettamente a favore dell’uno o dell’altro. Pare che a Milano il pubblico faccia faville a poco prezzo, e ad Agrigento faccia.. acqua da tutte le parti, spennando pure i cittadini. Mah.

E per quel 7% di profitto che sarebbe garantito alle imprese? Dicono serva a ripagare gli investimenti. Se gli investimenti li fa il pubblico, se li ripaga con le tasse, e ce ne accorgiamo poco; se li fa il privato, se li ripaga nella bolletta, con questo 7%. In entrambi i casi, non si capisce in che modo pubblico o privato sarebbero tenuti ad investire veramente. Il pubblico avrebbe l’incentivo di essere poi votato degli elettori, il privato quello di vincere la gara per aver offerto una qualità migliore. Ma le elezioni di solito sono decise da ben altro, e le gare in Italia si sa sempre chi le vince.

…Quindi?

Bi

Non ho ancora letto tutti e cinquantadue i bigliettini-ricordo che si pescano dall’apposita boccia, ma stavo pensando a quanto è bello averli in comune. Aver condiviso una quotidianità anche molto semplice, compresi gli scazzi, i silenzi, i rutti – (indispensabile garanzia di familiarità, insieme al comune lavaggio dei denti). E poi le cose imbarazzanti perché troppo tenere, che però con te andavano sempre bene lo stesso – anzi, ho avuto come il permesso di abbandonarmi a tutte le zuccherosità arretrate, con giusto quel po’ d’ironia per distinguersi dai bimbiminkia. Ma anche la semplice noia, il letto da rifare, i buffetti sul naso, la barba. La bonaria accoglienza verso le reciproche manie, derise ma in fondo perdonate, ché tanto le abbiamo entrambi. Scoprire che si può litigare, e poi le cose tornano a posto – non è così scontato, almeno secondo le nostre insicurezze. E naturalmente la possibilità di piangere, di vergognarsi, di commuoversi lasciandosi inglobare.
Soprattutto, però, l’adattabilità. Molto più tua che mia. Senza, non avremmo attraversato quasi indenni imponderabili variazioni di umori e orientamenti, differenze di bisogni e aspettative.
Non so bene cos’è, perché è durato e quanto durerà. Ma spero aggiungeremo molti altri bigliettini.

Più o meno a quest’ora

iniziava l’anno più bello della mia vita.

[E col Generatore Automatico di Ricordi hai fregato anche la mia smemoratezza]

Gli chieda scusa

“Scusami se ti disturbo” esordisce la ragazza, “ho avuto il tuo numero da amici di amici che abbiamo in comune. Ho bisogno di una consulenza. Un consiglio per il mio fidanzato.”
Racconta che l’uomo con cui vive è tunisino. Ha un bel lavoro. Grafico in un’agenzia di pubblicità o qualcosa del genere. Dopo anni da clandestino, ha potuto chiedere il permesso di soggiorno. “Glielo dovrebbero consegnare a giorni” spiega la ragazza, “ma ha ricevuto una lettera di invito in questura. Deve presentarsi domani mattina. E’ normale?” […]

L’ultima legge sull’immigrazione voluta dal governo di centrodestra è spietata. Perfino più crudele di quella precedente, con cui i due ministri ex comunisti avevano rispolverato gli zoo rinominandoli Centri di permanenza temporanea. […] La domanda non è carina, però va fatta: “Il suo fidanzato ha precedenti penali?” “No” risponde lei. Lascia passare qualche istante. “Cioè no, una cosa ce l’ha” rivela. “Che cosa?” “Il furto di una maglietta ai grandi magazzini. E’ successo a Roma, più di dieci anni fa. Una cosa da ragazzi.” “L’hanno denunciato?” “L’hanno preso subito e condannato per direttissima. Due o tre mesi con la condizionale. La maglietta l’ha restituita, una roba da niente.” “Credo che il problema sia proprio la condanna per furto. Avete intenzione di sposarvi? Potrebbe essere una soluzione.” “No, non pensiamo di sposarci” spiega lei. “Allora al suo fidanzato restano due possibilità. Una è andare in questura e affrontare le conseguenze.” “E cioè?” “Finire rinchiuso nella gabbia di via Corelli, essere espulso in Tunisia e aspettare i dieci anni previsti dalla legge prima di chiedere un nuovo visto di ingresso in Italia…” “E’ pazzesco.” “L’altra è non presentarsi in questura e vivere non so fino a quando da clandestino. In questo caso, però, nella richiesta di permesso di soggiorno voi avevate scritto il vostro indirizzo?” “Sì, certo” conferma la ragazza. “Quindi dovrete cambiare casa. Perché se lui non si presenta in questura, la polizia appena può verrà sicuramente a cercarlo.” “Ma il mio fidanzato non ha ucciso nessuno. Ha rubato una maglietta tanti anni fa, non ha mai più commesso un solo reato. Non possono fargli perdere il lavoro per una sciocchezza del genere.” […]

“E’ pazzesco” ripete. “Lo so che è pazzesco. E lo è ancor di più perché se il suo fidanzato rischia di dover lasciare l’Europa per il furto di una maglietta, la legge che stabilisce questo è stata approvata anche da parlamentari sotto inchiesta per mafia o per altri gravi reati. Ma non poteva che essere così. Basta sapere chi sono i due ministri che danno il nome alla legge sull’immigrazione. Uno è il capo di un partito xenofobo. L’altro è un ex camerata. Che cosa ci si poteva aspettare da loro? Né io, né lei, né il suo fidanzato possiamo fare nulla.” […]
Lei nel frattempo ha detto qualcosa. Il tono sembrava interessante. Alla mente però è sfuggito il significato. “Ho detto che la xenofobia proprio non la sopporto” ripete lei, “ma quell’altro ministro a me piace. Io l’ho votato“.[…]

“Il loro programma contro gli immigrati era chiaro” le dice Bilal, “era scritto. Doveva conoscerlo. Vive con un clandestino, no? Doveva informarsi prima di andare a votare.” “Non è possibile che la legge sia così spietata” insiste lei: “Voi giornalisti dovreste fare…”. “Guardi” la interrompe Bilal, “è un’ora che ne stiamo parlando. L’unica cosa che posso fare è darle un consiglio. Vada subito da lui e gli chieda scusa. Gli dica che è colpa sua se sarà rimpatriato. Perché lei, quel giorno, ha votato per l’espulsione del suo fidanzato.” La ragazza non parla più. Si sente solamente il suo fastidioso respiro. Troppo vicino al microfono della cornetta. Bilal aspetta gentilmente. Fa un lungo sospiro. Chiude la telefonata.

(Fabrizio Gatti, Bilal, p. 388-390)

E anche questa è fatta.

calanchi
fiori

Non che sia poi grave,

certamente, è una cosa cui ci si adatta, poi basta imparare una buona strategia, io ormai sono bravina, sapete, anni di esercizio, uno capisce cosa è meglio dire, una sottile alchimia di rassicurazioni, ironia, sicurezza ostentata e tanta, tanta comprensione – perché la gente è poi normale che non sappia o abbia paura o sia goffa insomma non è che io sarei migliore al posto loro, perciò ci vuole tolleranza, serve tempo per abituarsi, per molti è una cosa nuova o strana e se rifiutano beh pazienza, tranquilla che il mondo è grande, ognuno è fatto a modo suo, infatti io non è che pretendo naturalmente per carità

…solo ecco magari certe volte così per provare la sensazione mi piacerebbe
non dovremi preoccupare di rassicurare il prossimo, diminuire il suo disagio, correggere l’immagine che ha di me.

[Chissà cosa si prova a essere una persona qualunque?]

Cellophane

La protezione si fa incarto di cellophane. Appese alla testiera del letto, innumerevoli grucce con maglie e maglioni sotto protezioni trasparenti. Le ho sempre detto che m’impicciano, i vestiti appesi, bastano i cassetti – ma appena ho abbandonato il costante controllo del luogo, il fenomeno è esploso. Ai piedi del letto è apparsa una struttura appendiabiti dov’è allineata una decina di miei abiti, perlopiù dentro al cellophane.

Il cellophane ha ricoperto disordinatamente anche la mia vecchia tastiera, quella che non ho mai imparato a suonare sul serio. Dalla finestra – quella magnifica finestra al sesto piano, da cui ho sognato libertà per tanti anni – non riesco più a guardare, non senza dover scostare prima due strati di pesanti tende blu. Io le chiudevo di notte, casomai, ora entrando in quella camera la trovo sempre soffocata nella penombra umida di una stanza chiusa.

Apro i cassetti. Strabordano di magliette tinta unita, tutte uguali – grigie, nere o azzurre – che non ho mai comprato. Un tempo ne discutevamo spesso, con calma, litigando o piangendo di rabbia, le ho detto in tutti i modi di non comprarmi nulla, che mi faceva sentire dipendente, così – ma tu non ti compri nulla, non vedi come sono rovinate ormai le tue cose?. Anche i pantaloni – tutti uguali, tinta unita neri o beige, con la taschina rettangolare cucita da mamma sulla gamba sinistra – si sono moltiplicati da soli, e sono incartati anche loro in gusci trasparenti – in mia assenza, i pantaloni devono aver acquisito una vulnerabilità che non sapevo.

Mi sono svegliata e sono andata in bagno. Ero ancora sulla porta del bagno quando
– Ti metto la stufetta in camera, così poi se vuoi l’accendi
– Mamma, non mi serve la stufetta, fa caldo, e lì in mezzo è stretto, ci sbatto sempre, non metterla

ma non sente più, non sente mai, se è di spalle.

Franco, vai a prendere una nuova bottiglia, non vedi che sta finendo la sua.
Vuoi un po’ d’olio? Tieni
Se vuoi altre lasagne te le taglio, passami il piattino che te le taglio
Ti serve della roba? Viene giù papà a portartela in macchina, dai Franco vai con lei

Chiudo il portone di casa – forse ce l’ho fatta, forse me ne sto andando, sono finiti questi due giorni? – chiamo l’ascensore

la porta si riapre

Se vuoi viene papà ad aprirti il cancello

Ottativo

Quasi banale dire che la felicità sta nel compromesso, nell’addomesticare i desideri alle possibilità.

Ma a volte mi domando quanti desideri non sono mai nati perché palesemente irrealizzabili. Non dico desideri nati e poi scartati, parlo proprio di quelli che non si sono mai affacciati nella mente, quelli che quando te li nominano rispondi mah, no, non mi è mai interessato, non ci ho mai pensato, son cose che non mi attirano.

Più è vasta, quest’area di non-interesse, più è facile essere felici. Niente aspirazioni troppo ardue a realizzarsi, niente scontri con chi potrebbe ostacolarti, e nemmeno frustrazioni da noia o vita vuota, perché quel vuoto è condizione naturale, non mancanza di qualcosa – non si sente la mancanza di ciò che non si desidera. Basta quel che già si ha.

Io non ho molti interessi. Non c’è nessun posto dove voglia assolutamente andare, e nessuna cosa che vorrei assolutamente fare: posti e attività mi sembrano tutti più o meno uguali, interscambiabili, fa lo stesso, fa sempre lo stesso. Quasi tutti sognano un viaggio o hanno un locale preferito o una trasgressione da fare prima o poi – non so, salire di nascosto su una gru. Io no, non mi è mai interessato. Così, non ci ho mai pensato, son cose che non mi attirano.

Non mi attirano.

Non mi attirano.

Vero?

[E se avessi abortito per eccesso di prudenza anche qualche desiderio possibile?]

Volteggiare

Guidando giù dai colli, in una notte abbastanza vuota da poter andare piano, come piace a me, pensavo

agli indecifrabili affetti che si mescolano e si sovrappongono e confondono e indistinguono l’uno dall’altro, scambiandosi i ruoli e le priorità;

alle innumerevoli cotte, intese come fascinazioni totali e più o meno improvvise verso cose o persone, presto sporcate da irritanti imprecisioni, goffe indelicatezze, o fatali buchi neri sul piano dei valori – per cui forse andrebbe riscritta qualche opinione e qualche post (per poi rifarlo come prima, pentendosi, e poi ancora);

e immaginavo Рcome faccio spesso, con una certa fierezza Рdi prender per mano le vecchie persone e portarle fin qui, perch̩ sgranino gli occhi, almeno quanto me allo specchio,
al vedermi volteggiare nel casino
mantenendo, tutto sommato, una specie di grazia.