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E chi te l’ha chiesto? – 1

– Avanti – grida – mangiati ‘sta carne finché è calda! Mangiala!
Sento il rumore del cucchiaio contro i denti digrignati del ragazzo. La madre esasperata cerca di spingergli il cibo in bocca, mentre impreca in un napoletano rapidissimo cose che non capisco. Un signore si alza per calmarla, la prende per le spalle, la conduce a sedere. Angelo Рil ragazzo Рtace e immobile la odia con gli occhi, finch̩ la sorella lo porta fuori.

L’avevo vista turbata, la madre, già mentre entrava in sala informatica col suo cartoccino d’alluminio e un’espressione stranamente seria. Erano le sette e mezza, tenevo aperto come al solito oltre l’orario, perché Angelo stava finendo una partita a dama col suo sfidante più ostico, Pietro; erano rimasti loro e una famigliola con bimbi sparsi tra i vari computer.
– Ho fatto una corsa per portartela calda – aveva detto lei, senza sorridere. Sembrava presagire il rifiuto. Forse per quello, oltre alla carne, ha subito offerto al figlio un po’ di senso di colpa: ho fatto una corsa, capito?
– Non ho fame – aveva risposto Angelo col suo solito filo di voce, senza togliere gli occhi dalla scacchiera. – Dopo.
– Ma adesso è calda! Tu non sai cos’ho dovuto fare per portartela in tempo, sono salita con il ghiaccio per questa strada che mi prende un colpo ogni volta che curvo con la macchina e ho paura di ammazzarmi! Ci ho passato due ore a farti la cena e sono corsa qui, mo’…
Angelo non rispondeva. Gli occhi dicevano: …E chi te la chiesto?
– Stai calma – interviene l’avversario di Angelo – ora… ora finiamo la partita e poi mangia, vero?
– Ma che partita e partita, Pietro! Che credi che è per quello? Guarda che non è per quello che non mangia, è che vuole aspettare il padre! Tutte le volte è così – le si incrina la voce – è solo che quando una cosa gliela porto io non la vuole, invece col papà… col papà…

Da lì alla scena madre non c’era voluto molto. Più tardi, uscito Angelo, si è seduta al tavolo piangendo, mentre Pietro elargiva buon senso.
– Siamo noi che dobbiamo capire – diceva lui. – Loro sono in difficoltà adesso, spetta a noi genitori…
– E che, io non sono in difficoltà? E’ un anno è mezzo che stiamo qui dietro a lui… ma quello è sempre stato una testa dura… anche prima… perché credi che sia finito così? Perché? Perché quel giorno… quel giorno lui era tornato a casa alle sei del mattino… e poi voleva andare al mare… e noi a dire no, no che sei stanco, statti a casa, che ci vai a fare a mare! Ma lui no, ci devo andare… e poi il tuffo… i suoi amici me l’hanno detto… ci dispiace tantissimo signora, noi gliel’avevamo detto che era pericoloso, gliel’abbiamo detto cento volte… ma quello no… l’unico modo era prenderlo di peso e portarlo via, lui era convinto, una testa dura, diceva io ce la faccio… io ce la faccio… io ce la faccio……

[continua…]

Anna

– ..Infatti questo è un pensiero sviluppato più da Hegel, che..
Mi ero persa qualche pezzo del discorso, gli voltavo le spalle stando al computer. Lentamente ho distolto l’attenzione dalla mia mail per connettermi al filo di parole tessuto dalla voce maschile dietro di me.
Mi sono girata. Parlava un signore alto e brizzolato, seduto al tavolo centrale della sala informatica semivuota. Davanti a lui, una donna dai tratti nordici gli rispondeva con accento straniero. Era sulla cinquantina, con corti capelli grigi e occhi vivissimi dentro orbite scavate, e si cullava placidamente su una carrozzina troppo larga.
Rimasi ad ascoltare gli ultimi pezzi della conversazione – piuttosto insolita, in un ambiente ospedaliero tutto preso da drammi personali e necessità pratiche impellenti.
– Insegna filosofia? – mi sono intromessa, quando ha smesso di parlare.
– No, altrimenti non mi piacerebbe così tanto – sorride.
In effetti.

Anna è olandese, ma da trent’anni abita in Calabria col marito ingegnere – e filosofo per passione. Lei ha vissuto tredici anni in una comunità di normodotati e disabili. Come fisioterapista.
Poi è stata colpita da un virus del midollo spinale – di quelli che prima ti paralizzano del tutto ma poi, di solito, ritorni almeno zoppicare – e per una sorte ironica è passata dall’altra parte della barricata.
Forse per questo – oltre che grazie a un male meno inappellabile di altri – emanava serena consapevolezza. E’ forse l’unica a cui ho sentito dichiarare con sicura tranquillità che non avrebbe più camminato come prima.

Una sera ho trovato chiusa la porta della biblioteca, subito accanto alla sala informatica; così l’ho aperta per controllare.
– Oh… scusate – ho detto ritirandomi in fretta.
– No no, entra pure!
Avevano acceso solo un neon. Nella mezza luce li ho visti seduti da parti opposte di un tavolino, di profilo contro l’ampia vetrata che dà sulle colline.
– Scusate, è che di solito la porta resta aperta e non capivo…
– Noi l’abbiamo trovata chiusa – mi ha spiegato Anna. – Tant’è che pensavamo di non poter entrare… ma ci siamo messi qui lo stesso, a guardare il paesaggio
– Prima abbiamo spento la luce per vedere meglio – ha aggiunto lui – era proprio bello, il sole che cala sulle colline innevate…

Sembravano racchiusi in un’intima bolla di quieta eleganza e cortese semplicità. Ecco, ora non eravamo più in una stanza disordinata con un paio di scaffalature e dipinti del laboratorio sparsi ad asciugare; avevano evocato quantomento un tiepido salotto da tè morbidamente arredato.
Non mi restava che affondare su un divanetto, e farmi raccontare.

Davide – 2

Venerdì sono andata a salutarlo. L’indomani sarebbe andato per tre giorni in un altro ospedale, a operarsi alla piaga; poi l’avrebbero riportato qui, per passare un mese immobile nella sua camera, col culo per aria.
– Magari ti prendi un computer portatile – gli ho detto – e continuiamo il corso così… tanto per non annoiarti…
Cinque minuti dopo ero nell’ufficio Reinserimento ad avvertire dell’idea, e meditavo progetti didattico-ricreativi per pazienti allettati. Adoro la concretezza di questo lavoro.

– Ti stavo pensando – ha detto, quando l’ho raggiunto al letto. Doveva restituire un libro nella biblioteca dell’ospedale, ma lo avevano bloccato a letto e non sapeva come fare. Era un libro in inglese, una specie di corso; me lo ha consegnato e ne ha approfittato per attaccare bottone con la sua parlantina abruzzese condita di zeppola.
– Il fine settimana guardavo le previsioni del tempo – racconta – e se c’era un buon vento da qualche parte d’Italia, prendevo la roba del windsurf e partivo. Se no, guardavo se in montagna aveva nevicato, e allora prendevo la roba da sci, e partivo. E se il tempo non era buono per queste cose, semplicemente prendevo la moto e andavo così, verso qualche città, cinque, settecento chilometri…
Ogni tanto gli squilla il cellulare. Lo guarda, guarda me, lo riguarda, riguarda me. – No, dai… non rispondo. E’ sempre così, son contento di essere in un ospedale lontano da casa così almeno non mi vengono a trovare… prima era un delirio, non stavo mai solo!
Ok, disadattato non è.
– Almeno – gli dico – non avrai problemi a trovare qualcuno che ti porti a spasso anche adesso…
– …”Mi porti a spasso?” – mi guarda male – che brutta espressione…!
Già, hai ragione. Intendevo nel breve termine, poi prenderai la patente e sarai tu a portare in giro gli altri.
– Ecco, così mi piace di più – sorride.

Davide – 1

Davide si è infilato al corso di informatica di base col suo barellone da piaga da decubito. Per chi non lo sapesse, chi deve a operarsi una piaga sul culo deve starsene settimane intere a pancia sotto; perciò, per non deprimersi eccessivamente a guardare il pavimento della propria stanza, si viene forniti di barella auto-spingibile, con la quale si può vagare autonomamente intasando il traffico dei corridoi e decapitando qualche ignaro disabile carrozzato a ogni retromarcia.

Davide è un ragazzone rosso di capelli e con due spalle da gigante, che prima di spataccarsi con la moto girava il mondo praticando windsurf, sci, karate, atletica e più o meno tutti gli altri sport mai inventati da Olimpia a oggi.
– Computer? Quando mi dicevano di usarlo rispondevo… “Ma che computer, hai visto il sole che c’è fuori?” E andavo a correre!
Adesso che non può più correre, ha pensato che è bene imparare a far qualcos’altro.

Il corso avrebbe dovuto tenerlo il mio collega, ma spiegare come si salva un file a quattro o cinque persone che non hanno mai tenuto in mano un mouse richiede una chiarezza espositiva non prevista dal suo calabrese accidentato; senza contare che ogni allievo aveva bisogno di un paziente tutor personale. Così gli ho dato una mano, e il caso ha voluto che mi occupassi – oltre che di un signore baffuto avverso al doppio clic – di questo trentenne rosso, di sciolta parlantina e forte volontà.

Davide non sapeva niente degli sport che potrà ancora fare. Ci è rimasto, quando gli ho fatto fare un giro su internet, a vedere paraplegici che surfano, sciano e si rotolano spericolatamente in svariati modi. Non ha ancora potuto usare per bene una carrozzina, e non ha una chiara idea del fatto che, con le braccia che si ritrova, appena toccherà una ruota volerà. Ha passato undici mesi da un letto all’altro di centri sfigati in cui gli hanno fatto più danni che altro, e ora è impegnato a rimediare a quei danni.

E’ tornato in sala informatica anche fuori orario, per qualche lezione informale – o per chiacchierare, chi lo sa – liquidando simpaticamente il mio collega perché via, una lezione da una ragazza è sempre meglio. Mi sembra giusto.

(continua…)

Angelo – 2

Angelo frequentava un professionale aziendale che, a quanto sostiene suo padre, costituiva una splendente eccezione nel loro degradato panorama scolastico; avevano laboratori avanzatissimi, il bar dentro la scuola, e così via. Giusto con gli insegnanti non si era trovato, e così aveva deciso di lasciare gli studi.
– In prima elementare era chiusissimo, e le maestre mi chiamarono dicendomi che aveva dei problemi, che forse gli serviva una scuola speciale… dopo qualche anno si è svegliato, e le maestre mi hanno chiamato per dirmi che mio figlio aveva preso a botte un altro. Ma l’aveva fatto per dividere due che si stavano picchiando… ora, se fosse stato lui il violento allora sarei stato d’accordo, non si deve fare, ma così… allora, dico io, prima è timido e non va bene, ora rischia di prendersi botte per difendere un altro, e non va bene neanche… e lasciatelo stare!

La storia la raccontava il padre, mentre il figlio lanciava giusto qualche espressione eloquente, senza commentare. Nel contesto – sala informatica di un ospedale, un tavolone bianco, due carrozzine e un uomo di mezz’età – la scena sembrava intonata. Eppure, penso ora, se dovessi sceneggiare la parte di un normale Angelo diciottenne, in piedi accanto al padre che ne narra l’epopea infantile, scriverne il silenzio mi parrebbe non credibile.

– Lui è una testa dura – continuava bonariamente – uno che quando decide che una cosa non gli sta bene, non gli sta bene… così ha smesso con la scuola…
Poco dopo, ha pensato di tuffarsi in mare nel punto sbagliato.
– Eppure era un bravo nuotatore – ha spiegato il padre – è esperto di mare, non posso capire come sia successo…

Poi mi ha chiesto del furgone, ne stanno cercando uno con una pedana per caricare la sedia; qui interessa parecchio qualunque ammennicolo che possa far guadagnare un briciolo di autonomia. Almeno, interessa ai parenti.

– …Lui è pigro – mi diceva infatti, mentre il figlio voltava gli occhi altrove – potrebbe muoversi, ma… non vuole..
Certo, e più continui a dirglielo, meno vorrà. Non c’era bisogno di sapere che ha a scuola faceva l’attaccabrighe, per capire quant’è orgoglioso. Basta seguire lo sguardo quando ti dice “no”.

Un giorno è venuto ai computer con la madre, stavano aspettando che arrivasse l’educatore a dargli gli ausili per usare il pc col movimento della testa. Lei gli ha chiesto se, intanto, voleva provare a usare solo il trackball, con la mano.
Ha sbuffato un “no, vabbè” di quelli che hanno speranze di trasformarsi in si soltanto se non gli si dà occasione di diventar puntiglio. Ma quel no conteneva implicito il seguito inesorabile della conversazione – “dai, prova, che ti costa” – e quindi l’escalation del rifiuto. Un “no” “ah, ok” si può ritrattare, sperando sia stato dimenticato; da dieci no urlati contro l’insistenza non si sfugge. Tanto meno si sfugge a un no che ti è stato etichettato in fronte da a genitori dolcissimi, dal sorriso disponibile e premuroso, i quali però, prima ancora di farti parlare, ti presentano all’esterno come quello pigro.

Non so, sarà che mi ricorda tutte le etichette che diedero a me, tramandandole lungo l’infinita catena di assistenza sociale che segnava i confini della mia identità. O sarà che mi ha colpito quello sguardo più vivo di molti altri – forse solo perché contrasta con l’immobilità del corpo – ma mi piace credere di averlo visto davvero, quel lampo sveglio, ironico, acuto e tagliente.
In ogni caso, lo voglio cercare ancora.

Angelo – 1

La prima volta che ho incontrato Angelo avevo cominciato da poco, e mi stavano presentando il volontario della sala informatica, Roberto. Con lui al tavolo c’era un ragazzo alto, molto giovane, su una carrozzina enorme e completamente sommersa da una coperta. Spuntava solo la sua faccetta appuntita, dai capelli spettinati e schiacciati dal cuscino.
Giocavano a dama. Lui diceva le mosse a Roberto e questi gli spostava le pedine.
– Spesso piange – mi ha spiegato il mio collega serviziocivilista, appena siamo usciti. – Mi ha detto che ha chiesto a sua mamma: “mamma, come mai non piangi anche tu?” “Vedrai che anche tua mamma piange”, gli ho detto, “cosa credi, che non le importa… certo che è triste anche lei”.
Ho immediatamente pensato che, tra le varie risposte consolatorie possibili, io non avrei mai scelto questa.
– Lui potrebbe muovere un po’ una mano – continuava – però non lo fa, non lo vuole fare, si è lasciato andare del tutto. Ed è già un anno che sta qui…

Non l’ho più visto per vari giorni, ma ho continuato a pensare a lui, ogni tanto. Chissà cosa spinge un diciottenne che già ha perso i tre quarti del suo corpo a mandare a puttane anche quello che gli resta. Non so, secondo la mia logica credo mi attaccherei anzi con tutta me stessa a quel poco che mi rimane, cercando di scoprire come spostare il mondo intero con un dito.
Ma dovevo imparare un’altra logica.

Angelo è napoletano e non parla granché, anche se ho l’impressione che non sia del tutto colpa sua. Ho saputo la sua storia da suo padre, un uomo grassotto e sorridente, lento nei movimenti e pacifico nel parlare. Sembra accomodato in una quiete ormai forgiata dal tempo e rassegnata all’attesa, e insieme disposto a un ragionato pragmatismo dell’azione.
Ci siamo conosciuti una sera in cui stavo tenendo aperta la sala informatica oltre l’orario, lavorando al computer mentre ormai non c’era più nessuno. Poco prima che chiudessi è salito insieme al figlio, mettendosi al tavolo con me.

(continua…)

Vite in sopravvento

[La vita ha preso il sopravvento, dicevo a qualcuno tempo fa, spiegando perché ora scrivo meno. La vita, e precisamente non la mia, ma una manciata di vite altrui.
Perciò, ho pensato che potrei raccontarvi queste vite. Chi gode il sopravvento si reputa avere una posizione migliore rispetto agli altri, recita il dizionario. E’ una definizione così contraddittoria rispetto a quel che sono queste vite – indubbiamente reputate peggiori delle altre – che, come titolo, mi pareva perfetto.

Ho cambiato i nomi, ma le storie sono vere – per quanto può rimaner vero quel che passa prima dagli occhi, dalle orecchie, poi dalla testa e arriva alle dita fino alla scrittura, e poi passa di nuovo da altri occhi, altre teste…]

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Giorgia è una signora in carne dai capelli rossi e leggeri, che ondeggia un po’ col busto sulla carrozzina e si spinge lentamente con le mani senza presa. Quando ha saputo che i cioccolatini sul tavolo li offrivo io, per il mio compleanno, mi ha fatto gli auguri e mi ha bonariamente insultato perché le davo del lei. Poi ha cominciato una complicata manovra accanto a me. Io guardavo alternativamente lei e il pc, non sapendo se quel movimento mi riguardasse o se invece fosse scortese osservarlo. Solo dopo un po’ ho capito che mi si stava affiancando per abbracciarmi.

Avevo conosciuto prima il marito, un uomo comunicativo e sorridente, che quando ascolta annuisce forte e quando parla scandisce le parole, guardandoti a occhi ben aperti, come un maestro molto preoccupato di capire e farsi capire. Dimostra interesse per qualunque cosa e attacca conversazione volentieri, in sala informatica. Quando ha saputo del mio compleanno mi ha abbracciato per gli auguri.
Giorgia, ha raccontato il marito, suonava il pianoforte, prima che un chirurgo per sbaglio le sfasciasse il midollo spinale. Aveva appena dato un esame importante, suonando due costosissimi pianoforti al suo conservatorio calabrese.
– L’altro giorno ha provato a suonare la tastiera – ha detto lui – io ho preferito non entrare nemmeno. Uscendo, ha detto: “Un disastro”. Ovvio, ora – ha spiegato, mimando la mano penzolante – preme quattro tasti insieme, come fa…

La sera si è fatto il karaoke nell’atrio dell’ospedale. Battisti, Io vagabondo, Azzurro, Acqua e sale, tutto il repertorio cantabile per cinquantenni, interpretato regolarmente in almeno due o tre tonalità diverse allo stesso tempo e con stecche allucinanti a ogni acuto.
Si è avvicinata anche Giorgia, le hanno dato due bonghi e li ha tamburellati per un po’, con poca convinzione. Volevo chiederle se le piaceva cantare – mi pareva mi avessero detto che cantava, oltre a suonare. Magari, ho pensato, la invito al concerto di domenica. Ma ho esitato ad attaccare bottone, così come esitavo con gli altri due o tre ragazzi attorno a cui vado girando da un po’, in cerca di una comunicazione. C’è una tale scarsità di argomenti interessanti a cui appigliarsi, in questo ambiente. Non è che cateteri e patetiche attività ricreative da centro anziani offrano molti spunti.
– Ti piace cantare? – le ho chiesto quando mi si è avvicinata. Lei ha scosso la testa, così ho giustificato la domanda spiegandole del concerto di coro in cui avrei cantato anch’io; allora lei mi ha chiesto quale fosse il nostro genere.
– Mah, sia classica che popolare… di classica Mozart, Bach, Schubert… – non capivo la sua espressione, doveva essere una musicista, ma non pareva granché partecipe – …hai presente, la messa di Schubert?
– Ah… io canto jazz.
Ah, ecco, jazz.
Dopo aver sopportato il karaoke fino all’ultima canzone – minacciando sottovoce di andarsene ogni volta che il repertorio scadeva eccessivamente – Giorgia si è fatta dare il microfono in mano, nell’atrio ormai semivuoto, ha chiesto la sua base musicale e, mentre i volontari arrotolavano via i cavi e spostavano i bonghi, ha cantato in portoghese Garota de Ipanema.