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Così parlate – 2

Così mi sono appollaiata coi gomiti alla spondina del letto e della sua sincerità.

Dopo qualche frase di circostanza e un silenzio, gli ho posto la domanda che mi ronzava in testa da tempo. Ho fatto attenzione a porgliela col tono serio, quasi scientifico, di chi vuole solo capire.
– Senti.. ma tu – l’ho guardato negli occhi – come mai non fai da solo anche quello che potresti.. cioè.. è vero quel che dice tuo padre?
– Sì, è vero – ha risposto. Aveva una voce diversa dal solito, si era attestato anche lui sul livello di serietà che gli avevo proposto. Avevo bypassato lo strato dell’ironia e quello delle scuse vittimiste. Lo sapevo che era la serata giusta.
– Ha ragione. E’ che è faticoso, tu non sai… sono stanco. All’inizio ero io che non collaboravo eh, per carità è vero… ma poi.. da gennaio, che mi hanno tolto la tracheo, ho cominciato a voler fare di più… ma i miei ogni volta che viene qualcuno ripetono tu sei pigro, tu non fai, tu dovresti… e poi è ovvio che non faccio.

Come lo capivo. Orgoglioso – come me – e incastrato nell’impossibilità di cambiare un ruolo precedente. Gli ho stretto un braccio con tutta la mia empatia. Mi sono chiesta se lo sentiva.
– Lo so… – ho sorriso – guarda, ho quasi paura a venirti a trovare, perché so che appena arrivo i tuoi iniziano a sfogarsi…!
– E poi… – ha ripreso, cupo – mi scoccio perché è inutile, perché vedo che tanto non mi muovo. Io non mi sono ancora reso conto davvero di quello che mi è successo. Continuo a pensare a come ero prima… quello che non posso più fare…

…Certo, non pensa a quello che potrà fare, alla vita da costruire. Le possibilità rimanenti, qui, sono solo la cornice vuota di quelle perdute. Il futuro è una nostalgia.

[..continua..]

Così parlate – 1

– Ehi, vi hanno atterrati! – ho detto affacciandomi alla stanza di Angelo. Prima lo avevo cercato alla sua solita stanza, al secondo piano, rischiando di salutare con qualche allegro insulto l’ignaro vecchietto che aveva preso il suo posto. Angelo è stato trasferito al piano terra – quello dei post-acuti, quello di chi comincia a intravedere l’uscita.
La camera se l’è ricostruita com’era di sopra: tutti i disegni alle pareti, la foto di Maradona e di lui prima – in piedi con le mani in tasca e la camicia fighetta, lo sguardo abbronzato da sotto in su, con gli occhi semichiusi da bello maledetto. Me l’aveva accennato, una volta, che le donne le illudeva e poi le mandava via.

Ero andata a trovarlo in un buon momento. In generale il periodo era buono, ogni tanto in sala informatica lo sentivo chiamarmi in falsetto – Ilaaa’! – o gridare qualche presa in giro. Era diverso tempo che non mi fermavo a parlare con lui; forse perché non era più una novità, una sfida interessante – piuttosto mi sembrava una sfida persa, lui per primo non voleva giocarsela. Almeno, non come pareva a noi.
Ma quel giorno ero tornata a cercarlo in camera. C’era rimasto solo suo padre accanto al letto, che gli dava da mangiare. Sembrava in buona.
– Che ti mangi stasera? – ho chiesto ad Angelo.
– Pasta in brodo – ha risposto il padre, annegando il cucchiaio in una pappetta marrone. – Lui potrebbe mangiare da solo ma non lo fa – ha continuato – è più comodo farsi imboccare eh…
Ok, sembrava in buona. Forse lo era anche, in fondo sciorinava il solito elenco di pigrizie di Angelo, ma senza l’acredine sofferente della madre. Angelo ne rideva quasi, rassegnato, mentre io cercavo disperatamente di cambiare argomento.
Dopo un po’, il padre si è offerto di uscire per lasciarci soli.
– No no vabbè… – ha declinato Angelo, ostentando indifferenza come al solito.
– No dai, vi lascio soli così parlate – ha insistito, e se n’è andato, lasciandomi piacevolmente sorpresa da questo guizzo di sensibilità paterna. Avrei presto scoperto che non era per caso.

[…continua…]

Ci vediamo nel tuo disegno – 5

Giorgia ha salutato tutti col suo abituale fiume emotivo, senza schermi e senza riserve. M’è tornato in mente quando mi vide per la prima volta e mi abbracciò, così dal nulla, solo perché era il mio compleanno. O quando era ora dello svuoto – il cateterismo – e mi impedì di andarmene, dicendo che non le importava di spogliarsi di fronte ad altri. Poi si fece coprire perché aveva notato che stavo fissando insistentemente il mio cellulare, fingendo di scrivere un messaggio lunghissimo per non doverla guardare.

– Ci sono persone qui con cui magari non è che mi sono confidata chissà quanto – diceva a una signora che era venuta a salutarla – ma non importa, si è creato come… un filo, un filo, vedi, come tra noi due – la signora annuiva decisa – o come con questa ragazza che è veramente…
Ho fatto in modo di cambiare argomento prima che quella ragazza si sentisse troppo in imbarazzo. Mi sono accorta che ci stavamo tenendo la mano.

Altre persone sono venute a scambiarsi telefoni e speranze. Piovevano auguri di guarigione, di rivedersi, la prossima volta, da in piedi. Giorgia mostrava orgogliosamente di poter muovere un piede, rivendicava miglioramenti alle mani non previsti da quei menagrami dei medici.
Siccome lo dicono tutti i pazienti, non ho ancora capito se sono loro che deformano la realtà per darsi speranze, o i medici che fanno regolarmente previsioni al ribasso per mettere le mani avanti.

Mancava un quarto d’ora all’orario di chiusura dell’ospedale, quando ci avrebbero mandato via. Io aspettavo e le tenevo la mano.

Finalmente ha preso il biglietto coi miei contatti e il P. S., tenendoselo a distanza per riuscire a vederci, e l’ha letto ad alta voce.
– “Pi Esse: Ricordati che sono prigioniera delle parole: ci vediamo nel tuo disegno”…
Giorgia ha riso d’affetto e ha detto qualcosa di tenero. Quando se n’è andata anche l’ultima visitatrice, le sono saltata sul letto per riuscire ad abbracciarla.
– …Sono proprio contenta di averti conosciuto – le ho detto.
Sapevo che non avrei saputo dire granché. Avrei voluto dirle che credevo che sarebbe riuscita ad essere felice, un giorno. Che avrebbe costruito un ponte su quel buco che ha dentro e sarebbe arrivata dall’altra parte sana e salva.
– Anch’io – ha risposto, poi mi ha abbracciato sbaciucchiandomi come faceva mio padre.

Ma non gliel’ho detto, che sarebbe riuscita ad essere felice, perché non ne ero del tutto sicura. Perché nella mia voce forse avrebbe sentito un tono di dubbio, una scheggia di paura.

Quando sarò a casa non vorrò vedere nessuno. Mi chiuderò in camera col mio pianoforte, e piangerò.

Avrei anche voluto dirle che mi sarebbe piaciuto conoscerla in un’altra circostanza, senza che fosse così ribaltata dalla sua personale tragedia. Così sarei stata io a raccontarle la mia vita, e mi sarei fatta spiegare come si fa a essere bambine senza aver paura.

Sai, quando mia sorella era piccola le dicevo che il cielo stellato era una magia. Solo che un giorno c’erano le nuvole, e lei mi chiese ma come, oggi la fatina non ha fatto la magia?

Sono scesa dal letto e le ho augurato buon viaggio. Ho baciato sua madre e suo marito, li ho salutati di nuovo, ho aperto la porta, mi sono voltata ancora.

– Ci vediamo nel tuo disegno!

Ci vediamo nel tuo disegno – 4

– Vengo anch’io a salutare Giorgia – mi ha detto Federico quella sera, mentre chiudevamo la sala informatica.
– Allora vacci prima. Oppure vieni con me, ma poi va’ via prima di me
РPerch̩?
– Vorrei salutarla da sola.
Sapevo che da sola voleva dire comunque insieme a tre o quattro parenti, se andava bene. Non sapevo nemmeno cosa avessi esattamente da dirle, anzi, sapevo che non le avrei detto granché. Ma forse avrei pensato e lei mi avrebbe sentito.

Quando sono scesa in camera sua l’ho trovata nella stanza a fianco, mentre offriva pasticcini agli altri pazienti. Ho aspettato che finisse il giro e quando sono tornata l’avevano già messa a letto.
– Allora, prendi quel foglietto e scrivi – ha elencato sulle dita – indirizzo, cellulare, mail…
– Ok, ok… – ho annuito prendendo la penna.
– E poi metti: P.S. …
– P. S. cosa? Ti devo fare la dedica?
– Certo
– Oddio, così su due piedi – ho riso di difficoltà – …io ti scriverei una lettera, non una frase!

Mentre meditavo sulla dedica è iniziata la processione di tutti quelli che volevano salutarla.
– Di me non ti ricordi vero? – le ha detto una tizia sui trent’anni, dalle mani grosse poggiate sulla spondina del letto. – Ma tuo marito sì… ero all’ospedale a Bologna mentre ti operavano – (cioè mentre le procuravano per sbaglio una lesione midollare) – in sala d’attesa con tuo marito… c’era anche mio padre sotto i ferri. Ovviamente io ero più tranquilla – ha raccontato, con un sorriso da parte a parte – insomma, sapevo che mio padre non era grave, sarebbe uscito di lì e tornato a casa a breve…

In quel momento devo aver sentito un violino dell’orchestra cosmica stonare stridendo come un gessetto sulla lavagna.
Una volta lessi in un libro di Pontiggia che nel dolore si fa a gara, rinfacciando agli altri la propria briciola di fortuna per sentirsi un po’ meno disperati.

[..continua..]

Ci vediamo nel tuo disegno – 3

– Vorrei entrare in questo disegno – le ho detto, mentre la sabbia diventava ocra. – Devo senz’altro venirti a trovare.
– …Attenta – mi ha risposto – guarda che ora sei prigioniera delle parole
РCio̬?
РEh, finch̩ le parole restano dentro di te puoi farci quello che ti pare. Ma quando escono, ne sei responsabile. Diventa una promessa
– Allora sono contenta – ho sorriso, indicando il disegno – non è male come prigione, no?
Percepivo che Giorgia si fidava il giusto. Si fa sempre questo genere di promesse, quando ci si separa. Ma lei non sa che ho un rapporto speciale con le separazioni e una manciata di traumi da abbandono e promesse non mantenute. Per ristabilire l’equilibrio della giustizia universale, prima o poi dovrò prendermi un paio di mesi sabbatici e fare il giro d’Italia, andando a trovare tutti i pazienti.

Più tardi Federico, il mio collega serviziocivilista, le ha messo in braccio un bambino che gironzolava in sala informatica. Lei se lo spupazzava tutta contenta.
In quel preciso momento, in biblioteca tenevano un incontro su Sessualità e Procreazione nei mielolesi. Il marito c’è andato, lei non ha voluto. Mentre la guardavo, mi chiedevo come mai una coppia alla soglia dei cinquanta non avesse figli. Forse non potevano. Forse non avevano voluto e ora lei abbracciava un rimpianto.

Giorgia ha alzato la testa dal bambino e mi ha guardato.
– Tu e quei due occhioni che capiscono tutto… – ha detto, con un sorriso complice.

Mi aveva sentito pensare?

[..continua..]

Ci vediamo nel tuo disegno – 2

– Ti serve una mano per disegnare?
– Sììì! – ha risposto entusiasta, e il suo entusiasmo mi ha un po’ sollevato. Non volevo che tornasse a casa avendocela con me.

Dopo un po’ che le tenevo fermo il foglio mi si era annoiata la mano.
– Forse se lo infilo negli angoli dell’album sta fermo lo stesso, che dici?
– No – ha risposto decisa. – Certo, se ti sei stancata…
– No no, lo dicevo per la tua autonomia.
– Io non voglio essere autonoma. Io sono paracappata.
Paracappato è l’amaro neologismo inventato da un altro paziente fondendo paraplegico e handicappato. Non mi è sembrato il caso di sottolineare che lei, casomai, era tetracappata. E nemmeno che doveva cercare di essere autonoma e bla bla bla.
Giorgia, semplicemente, voleva che in quel momento io le tenessi il foglio e che stessi con lei. Era un modo per salutarsi.

– Prendi il blu – mi ha detto, porgendomi la mano destra. Le ho infilato la matita tra l’elastico e l’indice tentando di non infilzarla. Ha colorato le tegole di una casa a picco sul mare. Stromboli fumava nella parte alta del foglio.
– Sai, da noi in Calabria ci sono case così vicine al mare che la gente pesca dal balcone – ha raccontato. – Si capisce che questo è un balcone?
Mi ha fatto colorare le sfumature precise e i tratti molto premuti, che lei non riusciva a fare. Disegnava linee tremolanti e sfuggiva dai contorni, ma anche nell’irregolarità del tratto s’indovinava una sicurezza esperta. Giorgia disegnava e dipingeva spesso, prima.
Mi ha chiesto di cancellare l’unica linea dritta, che aveva fatto col righello.
– Tanto non c’è niente di così dritto, al mio paese…

– Giorgia, scendiamo a mangiare? – l’ha chiamata la madre.
– No, non vengo giù stasera – ha risposto, senza spostare gli occhi dal foglio. – Mangerò un panino. Resto qui a disegnare. Di che colore la facciamo la spiaggia?
– Ah, se non lo sai tu! – le ho detto, guardando gli ombrelloni bianchi. Speravo che volesse finire il disegno in tempo per regalarmelo. L’avrei appeso in camera per ricordarmela sempre.

– Uffa, se ne stanno andando tutti quelli a cui mi ero affezionata… ora a chi scroccherò la cena?! – ho riso, circondandola con un braccio. Lei non ha risposto e non mi ha guardato, mentre le tremava il labbro.

[…continua…]

Ci vediamo nel tuo disegno – 1

– Ti serve una mano per disegnare?
– Sììì! – ha risposto entusiasta. Giorgia era salita in sala informatica con l’album da disegno incastrato dietro la schiena e il sacchettone di matite posato sulle gambe. Ci siamo messe al tavolo della sala informatica, le ho infilato le dita nell’elastico che usa per tenere la matita, e ho tirato fuori dall’album uno scorcio di Calabria ancora bianco per metà, con colorato solo il mare.
Era l’ultimo giorno.

Un paio di giorni prima, Giorgia si era offesa.
Mi stava spiegando come funzionava il programma che usa per comporre musica, Cakewalk: un pentagrammone virtuale su cui cliccare le note di un’intera orchestra, volendo. L’aveva già usato per comporre un pezzo dedicato a Matteo l’educatore, e poi un altro per me, Ilaria’s Blues. Quel giorno aveva pensato di farmi una lezioncina di musica su Cakewalk, ma eravamo cadute inesorabilmente nel gap tra la sua laurea in pianoforte e la mia stentata capacità di leggere in chiave di violino.
– Dài, scrivi tu le note – mi diceva. Certo, quali?
Alla fine si è rassegnata a scriver lei, dandomi qualche spiegazione sommaria, mentre io annuivo sforzandomi di seguirla e annoiandomi vagamente. Giorgia aveva già tentato di darmi qualche lezione teorica sugli accordi, ma un po’ l’allieva scarseggiava in memoria, un po’ avevo beccato l’insegnante in un periodo della sua vita in cui soffriva di rapida insofferenza – per motivi più seri della mia ignoranza. Così, la guardavo smanettare con Cakewalk impegnandomi a fondo per non deluderla quando mi domandava qualcosa – ottima tecnica per fallire, dato che occupa metà del cervello nel sentirsi a disagio.
A un tratto sono arrivati a trovarla alcuni amici, perciò ne ho approfittato per defilarmi. Lei mi ha guardato con una delle sue espressioni traboccanti pathos, come se la stessi abbandonando.
– Dài, ti lascio parlare coi tuoi amici…
– Ma no… loro li vedo sempre…!
– Ma che, te ne vai per noi? – son intervenuti loro – Resta, resta, ti pare! Ce ne andiamo noi!
Ero incastrata sulla porta. Cinque o sei persone mi fissavano rumorosamente e mi imbarazzavano facendomi sentire troppo importante. Una di loro mi guardava con un’aria da pulcino tradito. In una frazione di secondo la mia voce ha deciso di fuggire per la strada più consueta: l’ironia.
– No ti prego – ho mormorato a una degli amici di Giorgia, con aria complice – era una scusa per liberarmene! Salvatemi! – ho riso.
Naturalmente c’era del vero, come in tutte le ironie. E come in tutte le ironie, il vero, per paura, si mascherava di violenza.

– Guarda che ci sono rimasta male – mi ha detto poi Giorgia, con la sua abituale schiettezza. Ti portava sempre dritta e senza fronzoli dentro i suoi sentimenti. – Se ti dava fastidio quel programma, potevi dirmelo!
Ma no, non era fastidio. Era qualcosa che avrei saputo dire, se tu avessi avuto il tempo di insegnarmi come si fa a portare gli altri dentro i propri sentimenti. Perché te ne vai così presto?

[…continua….]

Genialità – 2

– Si mi sono trasferito da Pescara a Bologna per frequentare giurisprudenza
– Ah.. come mai proprio Bologna?
– Lo preferivo come ambiente di studio, non tanto per la qualità dell’insegnamento e la tradizione conclamata dell’ateneo, quanto piuttosto in considerazione delle stimolanti opportunità goliardiche che la città offre…
– Beh di certo c’è vita… opportunità per i giovani..
– Indubbiamente, ma io mi riferivo più nello specifico alle ampie possibilità di approccio verso il sesso femminile, che, perbacco, non sono da sottovalutare! – ha riso, mentre la madre lo rimproverava bonariamente.

Marco aveva ventun anni, e sembrava molto socievole. Era stato l’unico paziente, fino ad allora, a presentarsi a me per primo, porgendomi la mano non ingessata. Dopo mesi in cui vedevo la madre sempre da sola, finalmente si è piazzata al pc insieme a questo ragazzone coi piedoni gonfi e la parlata forbita.
– E tu cosa studi? – mi ha chiesto lui.
– Lettere
– Ooh, Lettere! – si è illuminato – io ho intenzione di acquisirla come seconda laurea, per il momento ho preferito orientarmi su giurisprudenza, in quanto mi forniva una preparazione più adeguata alle aspettative professionali che mi pongo sul breve termine – ha spiegato, con aria professionale – tuttavia conto di approfondire anche l’ambito umanistico, riguardo al quale, d’altra parte, sto già preparando alcune pubblicazioni critiche
– Pubblicazioni?

La sua voce rapida e nasale mi ha elencato ambiziosi progetti letterari, citando un nonsoche su Orazio. Gli ho dato corda, finendo a contraddirlo in una discussione sulla lettura in metrica latina. Sembrava che non vedesse l’ora di trovare qualcuno con cui poter discutere di queste cose, e a me pareva buffo parlarne proprio lì.
Io tentavo maldestramente di nascondere la mia ignoranza, o di riderne, mente lui sciorinava una vasta cultura – o quantomeno una memoria imponente – con una parlantina che si faceva sempre più innaturale. Elaborava in un secondo concatenazioni di subordinate che io non avrei messo insieme nemmeno in mezz’ora di concentrazione davanti a un foglio bianco, e usava con naturalezza un registro linguistico del tutto estraneo alla quotidianità.

Marco, ho pensato, probabilmente è un genio. Di quelli con una manciata di neuroni speciali, una genetica superiorità nell’area linguistica del cervello. Forse sto conoscendo qualcuno che diventerà Qualcuno. Devo ricordarmi il nome.

Federico ha fermato la pallina, ha ondeggiato un po’ la racchetta con la mano e si è guardato intorno.
– A me l’ha detto Lucia – la nostra capa – quindi – ha abbassato la voce, avvicinandosi – credo che possa saperlo anche tu…
– Cosa?
– Hai presente che ha tutte le gambe e i piedi fratturati – ping
– Sì avevo notato
– Ha tentato il suicidio

Pong

Genialità – 1

Federico è uno dei due nuovi serviziocivilisti, arrivati a gennaio. Ha un anno più di me, due occhi trasparenti verde acqua, una passione per il tennis, l’aria spersa e teneramente paffuta.
I primi tempi passavamo i momenti vuoti giocando a ping pong, e lui ne approfittava per chiedermi informazioni su qualche paziente, collega o catetere. Tra una pallina e l’altra, mi chiedeva scusa.

– Senti ma – ping – quella signora dai capelli rossi cos’ha fatto? – pong
– L’hanno operata male – ping – tranciandole il midollo – pong
– Oddio – ha sgranato gli occhi, ping
– Beh ce ne sono diversi qui per questo motivo – pong
– Ah.. – ping, cade la pallina – Oh scusa, scusa, la prendo io
– Ma ce l’ho qui accanto
– No scusa, figurati, la prendo io

Una sera, invece, è stato lui a raccontarmi qualcosa.

– Hai presente quel ragazzo, il figlio della signora Informatica?
La signora Informatica probabilmente ha anche un nome, ma la mia testa la identificherà per sempre come quella che si affaccia al terzo piano a qualunque orario, chiedendo: “E’ aperta la sala informatica?”. E’ senza dubbio l’utente più assidua. L’ho vista spaziare da msn ai forum passando per siti di giochi arcade e altri che è meglio non citare.
– Si, ho presente – ping – mi si è anche presentato l’altro giorno. Perché?

Federico ha fermato la pallina, ha ondeggiato un po’ la racchetta con la mano e si è guardato intorno.
– A me l’ha detto Lucia – la nostra capa – quindi – ha abbassato la voce, avvicinandosi – credo che possa saperlo anche tu…

[…continua…]

Di aver sbagliato tutto – 2

Ho passato tutta la mattina con in fronte una specie di montatura da occhiali in fil di ferro sbilenco con un pallino argentato al centro, inclinando il collo davanti al monitor in maniera abbastanza ridicola. Dovevo imparare come funzionava quel cavolo di aggeggio per non fare qualche figura barbina con Angelo: quello si scoraggiava subito di fronte alle cose complicate, per cui dovevo spacciarlo per un gioco da ragazzi.
Sapevo che far teatro per anni mi sarebbe servito prima o poi.

Dopo averci preso la mano, non sembrava nemmeno così difficile. Mi sono allenata montando e smontando la webcam e il mouse col pulsantone abbastanza volte da saperlo fare con una nonchalance quasi credibile.
Poco prima delle quattro, sono scesa in reparto per andare da un altro paziente, sperando non mi facesse perdere troppo tempo – tanto Angelo è cronicamente in ritardo, che importa. Alle quattro e dieci ero di nuovo in sala informatica: Angelo c’era già.
Ma era al tavolone centrale e stava giocando a dama col suo sfidante preferito.
Calma. Inspira, espira. Si sarà dimenticato.

– Ehm. – mettiamola sul simpatico, dài. Sorridi. – Avevamo un appuntamento, no?
– Eheh.
Eheh cosa, testa di cazzo? Uhm, no, questo non si può dire.
– …il computer…
– Aah, già – ha risposto con un sorrisino falsamente innocente, rispostando gli occhi sulla scacchiera e ordinando a sua madre la mossa successiva. Il messaggio era inequivocabile: ho altro da fare.

Ho incenerito il suo sorrisino con lo sguardo più fulminante del mio repertorio.
Poi mi sono voltata in silenzio e sono uscita prima di dire cose sconvenienti Рprima di arrabbiarmi perch̩ non mi ha gratificato, prima di forzarlo a lasciarsi salvare, prima di fare esattamente come sua madre Рah, come la capivo Рquando sbraita e lo imbocca a forza perch̩ ha faticato tanto per cucinare Рrendendomi conto in un attimo di aver sbagliato tutto.