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Certe notti – 4

Io lo ascoltavo, senza quasi rispondere. Raccontava delle tante donne – trecentoventicinque, trecento prima dell’incidente e venticinque dopo… – del breve matrimonio e del figlio, delle notti pazze, delle avventure in mare, delle volte che ha fatto a botte, che ha sparato – è brutto, è sempre brutto ammazzare qualcuno – che c’è quasi morto. Intanto si erano avvicinati in silenzio anche il ragazzo rumeno e un altro, Gianluca. Hanno più o meno la mia età – come suo figlio – e lui se li è praticamente adottati, in ospedale, cercando di dargli un verso con la sua esperienza di vita e di paraplegia. Capivo che quello era il tipo di consulente alla pari di cui avevano bisogno: un tizio carismatico e senza fronzoli che sapesse conquistarli legandoli in complicità cameratesche; non intellettuali schizzinose come me.

– Vedi – gli ho detto dopo un silenzio, poggiando la testa sul muro dietro di me. – Io le tue certe nottinon le ho mai vissute, e le non vivrò mai. Buffo, sai, io di quelli come te, a vederli in piedi, in genere ho paura, son quelli poco raccomandabili, che se mi tirano un ceffone io ci resto.

Era proprio vero. Sono obbligata geneticamente alla nonviolenza e alla paura, che per estensione diventano, rispettivamente, bisogno di stabilità, sicurezze, programmi, delicatezza, pace, blu, e tendenza a sfuggire, nascondermi più che sfidare, calcolare più che tentare. Almeno quando si tratta di avvicinarsi a qualche persona/mondo che mi pare estraneo, lontano e vagamente pericoloso.
Da bambina avevo paura dei giovani che ridevano di notte, sotto la mia finestra – dovevano essere senz’altro ubriachi, drogati, maniaci e di certo cattivi, come insegna la mamma. Quando mi sono ritrovata tra i giovani che ridono di notte – scoprendoli così banali – ho semplicemente spostato la paura appena un po’ più in là – perché c’è sempre un’altra risata notturna poco più avanti, sull’altro marciapiede, più vicino all’alba; un crocchio misterioso che mi dà le spalle, così alte, confabulando un suo segreto in una lingua che non so.

Cesare era caduto quaggiù da una notte molto, molto lontana da me, e ora l’avevo a disposizione.
– Molti mi hanno consigliato di scrivere la mia vita – ha detto – magari un giorno lo farò…
– Sì, credo che dovresti – ho risposto, pensando che io gliel’avrei scritta volentieri. – Così almeno potrà leggerla anche chi non l’ha vissuta.

Certe notti – 3

– Certo che questa vita mi rende felice. Questa è la mia favola. La favola che devo vive’ pe’ me, e che cerco di far vive’ agli altri, a mi’ figlio, o quando faccio star bene ‘na donna. Se dimentichiamo la favola certo che ‘sta vita è ‘na mmerda, io me so’ operato tredici volte in sei anni e ancora sto male e certi giorni nun me posso alza’ dal letto e quelle notti di prima dell’incidente non torneranno mai, e quando trombo è ovvio che non sento più come prima e ho dovuto impara’ a fa’ l’amore con la testa, ho dovuto impara’ quel che molti uomini non sanno fare, ma cerco de vive’ come posso questa vita finché reggo, poi oh certo che se arivo a sessant’anni che sto ancora così male allora piglio la mia pistola e mi sparo, mi sparo, ma intanto so’ vivo, sto qui, e questa è la mia favola…

Ho esitato molto a parlare della favola di Cesare, perché lui sa raccontare le sue storie molto meglio di come io potrei riportarle: non si può scrivere il suo sguardo sottile mentre ricorda, il sorriso fiero, la sicurezza rimasta nei gesti, anche quando a mala pena riesce a tenersi dritto sulla sedia.

La sera del karaoke, lì nel pianerottolo delle scale, dopo che Lorenza se n’era andata, ha cominciato a raccontarmi la sua vita e la sua filosofia.

Cesare è paraplegico e soffre di svariate complicazioni agli organi interni, per cui è perennemente malato e affaticato. Ha ancora due braccia scolpite, ultimo relitto di un corpo perfetto.
Era un poliziotto dei corpi speciali, sulla spalla ha lo stemma dei NOCS, e se alza la maglietta e scosta un po’ la panciera gli si vede la morte tatuata su un fianco.
– Io pensavo ahò me faccio tatua’ la morte che ce la devo ave’ amica, e invece questa oh non m’ha voluto… e dire che me so’ fatto tre conflitti a fuoco, immersioni subacquee oltre i settanta metri, che ‘na volta un coglione ha fatto casino con la bombola e me stava a ammazza’, me so’ paracadutato, so’ saltato da ‘na nave a un gommone de quelli grossi che se ce resti in mezzo te schiaccia e mori… e alla fine me doveva succede ‘sta cosa perché uno m’ha preso lo specchietto della moto… io nun me ricordo ma me dicono che stavo cosciente, e dicevo nun me toccate, nun me toccate…

[…continua…]

Certe notti – 2

– Certe notti la macchina è calda e dove ti porta lo decide lei; certe notti la strada non conta e quello che conta è sentire che vai…
– Ma proprio Ligabue dobbiamo sentire? A me Ligabue non piace
– Come fa a non piacerti… Certe notti… era la mia vita sai? – ha detto Cesare un po’ sognante, abbassando il microfono del karaoke, mentre la base continuava ad andare. Lo avevo visto cantare e mi ero avvicinata, nell’atrio ormai c’erano soltanto lui e Lorenza, la ragazza che tiene il karaoke. Era da un po’ che discutevano; sembravano in confidenza. Prima Cesare, scherzando, aveva istigato una bambina a darle della scema, e Lorenza lo aveva rimproverato molto seriamente. Lui aveva risposto che preferisce educare suo figlio a capire quando si scherza e quando no, piuttosto che a considerare tabù certe parole.

– La tua vita… allora non è una vita da rimpiangere – l’ha rimbeccato lei, severa.
– Come no… – sorrideva – le notti che se partiva senza sape’ dove anna’, prendevi la moto e via… senza di me i miei amici nun se divertivano, se c’andavo io invece tempo che entravamo in un locale a fa’ i coglioni, già ci eravamo fatti conosce’ e c’avevamo due o tre donne pronte a trombarci che…
– E ti rendeva felice una cosa del genere? – l’ha interrotto con trasporto, mentre raccoglieva i microfoni. Ormai era tardi, e poi non c’era più l’atmosfera giusta per cantare.
– Certo – ha risposto, col suo sorriso sicuro.
– No, Cesare, tu credi di essere felice – gli ha detto con pathos, quasi pregandolo di capirla.

Hanno continuato a discutere a lungo quella sera, mentre fumavano nella tromba della scale. Io mi sono sistemata a breve distanza, ascoltando senza intervenire quello scontro di opposte felicità.
Lorenza stava seduta su un gradino, a guardarlo da sotto in su. Appartiene a un’insolita confessione cristiana, ma le sue argomentazioni erano sovrapponibili a quelle cattoliche – specialmente la convinzione di possedere l’esclusiva sulla felicità. Gesticolava tutta partecipe, parlava molto più di lui, incartandosi ogni tanto in qualche ragionamento. Gli spiegava il vero amore secondo Dio con una partecipazione tale che sembrava volesse convincerlo ad amare lei.
Lui la ascoltava con la pazienza paterna di chi sa di aver ragione, e sa che l’altro capirà solo col tempo. Le diceva sorridendo che forse, dal suo punto di vista, senza offesa, era un pochino bigotta. Cesare gira con un tau al collo, ha ammazzato due persone per difesa, ha divorziato, trombato un’infinità di donne e crede in Dio.

[…continua…]

Certe notti – 1

– Ma che rumeno sei! Dico, potevo conosce’ un vero rumeno che stupra, ruba, ammazza, che ne so, e ‘nvece me tocca ave’ in camera l’unico rumeno in Italia che s’alzava alle quattro del mattino pe’ anna’ a lavora’! E pure in regola, ma te pare?

Io non sapevo ancora bene se potevo ridere con gli altri, o se dovevo difendere quel ragazzo smilzo e pallido, col cappellino di traverso, che non parlava quasi mai. Lui accennava un sorriso scuotendo la testa, come fosse abituato.
Mi ero seduta con loro al del bar dell’ospedale, c’erano un paio di ragazzi che già conoscevo di vista. Invece mi era nuovo questo tizio sui quaranta, che teneva banco in romanesco ostentando una gioviale arroganza. Aveva un neo sul naso e due braccia da palestrato; intravedevo un tatuaggio, una catenina al collo.
– Ma ancora nun m’avete presentato ‘sta ragazza, che cafoni.. nun ce bada’ – m’ha detto – questi so’ così… io sono Cesare comunque
– Mmm.. a uno come te conviene dare un nome falso, che non si sa mai.. vediamo… Marianna ti piace? Se no boh, Maria, Francesca, Genoveffa, scegli un po’…
Così è cominciato il gioco per cui ora in quel gruppetto mi chiamano con più o meno tutti i nomi femminili esistenti, tranne il mio.
– Quanti anni hai? – gli ho chiesto.
– Ventinove.
– Se tu hai ventinove anni li porti proprio di merda eh!
– Come osi! Ma io te brucio! Datemi un accendino! Io te brucio! Guarda che io c’ho sempre ventinove anni… quando ho divorziato, che ne avevo ventiquattro, mio padre disperato m’ha detto “ma quando crescerà ‘sto figlio…” e io gli ho garantito che sarebbe successo ai trent’anni. Da allora, ogni anno, ne compio sempre ventinove!

Cesare è un leader, un affabulatore. All’inizio mi ha ispirato vaga diffidenza, per quella sua virilità ostentata, l’aria rozza e un po’ violenta, la strafottenza da uomo vissuto. Poi ho scoperto che ha vissuto veramente dieci o dodici vite, di quelle che non ho visto né mai vedrò che da lontano.

[…continua…]

Vorrei essere – 3

Poi ha chiesto a Maria di leggere la poesia.

…Vorrei essere una lacrima per accarezzarti il viso
vorrei essere un asciugamano per abbracciarti
vorrei essere una spugna per passare sulle tue nudità
ma non posso toccarti, nemmeno sentirti sulla pelle
non mi resta che scrivere di un sogno…

– Ti piace? – mi ha chiesto lui.
– E’ triste – ho risposto, molto in fretta. Quando ho sentito la mia voce uscire così in fretta, ho intuito che aveva saltato il controllo al posto di blocco sull’opportunità delle parole.
РPerch̩?
РPerch̩ parla di un sogno che non puoi realizzare.
Ogni tanto mi domando se la mia sincerità sia una dote o un’insensibilità. Non so come ho fatto a dire una cosa del genere a uno sconosciuto di cinquant’anni, che da otto vive grazie a un aggeggio che lo fa respirare, scrivendo poesie su buoni sentimenti. E’ che me ne avevano parlato come di uno con cui molti si confidavano, uno a cui mandavano i nuovi pazienti perché trovassero motivazioni per vivere. Non potevamo parlare del tempo. Sentivo di dover mettere in gioco me stessa – e me stessa com’era, con le sue aggressività e debolezze, non la versione riveduta e corretta dai libri sull’ascolto attivo e dai seminari sull’empatia.
– E perché non posso? – ha chiesto, con un tono da “e chi lo dice?”
– Sei tu che lo dici… tu ne parli come di un sogno che non puoi realizzare.
Me la sono cavata così, spacciando il mio commento per interpretazione del testo, invece che della mia paura.
– Eh vabbè…
– Cosa mangi per cena? – si è intromessa Maria, a voce troppo alta. Brandiva il foglio del menu in cui i pazienti scelgono ogni volta tra tre o quattro portate.
Poco dopo è uscita per consegnarlo agli infermieri, ed è calato un nuovo, più difficile silenzio. Io ero impegnata a ragionare del mio senso di colpa; lui, non so su cosa.

Dopo un rapido giro su tutti gli angoli della parete, il mio sguardo ha incrociato il suo.
Ed è rimasto lì agganciato molto, molto, molto più tempo del consueto, facendo tutto un suo discorso che non so.

Vorrei essere – 2

Intanto io sfogliavo il libro di Franco, captando rapidamente qualche informazione sulla sua vita: incidente otto anni fa, tetraplegia altissima, voglia di morire, scoperta della fede, moglie e figlia. Ah già, ricordavo, moglie che l’ha lasciato, mi aveva detto un collega una volta – non me la sentirei di condannarla, aveva aggiunto – io sì, avevo risposto.
Tra un silenzio e l’altro, Franco mi faceva qualche domanda di circostanza – di dove sei? – per conoscermi, e io qualche commento di circostanza – è la foto del tuo nipotino? – per ingannare il tempo.

Ma sentivo che la conversazione convenzionale non reggeva affatto. Ho sempre avuto difficoltà a trovare argomenti inutili per parlare con nuove conoscenze, ma in quel momento ne percepivo l’assenza in modo nuovo.
Non pesava.
Sentivo piuttosto un imperativo di sincerità, il bisogno di guardarlo negli occhi e dissolvere l’inessenziale.
Avevo voglia di chiedergli se voleva suicidarsi. O come mai scriveva poesie mediocri ma gliele pubblicavano lo stesso. Se era arrabbiato con sua moglie perché l’aveva lasciato. Se aveva voglia di fare l’amore.

La signora Maria è uscita dal bagno con il foglio di carta tutto bruciacchiato all’intorno. Al centro, c’era la poesia che avevano stampato prima. Mi hanno mandato a prendere un caffè alla macchinetta; poi Maria ci ha intinto un fazzoletto e con quello ha iniziato a tamponare il foglio, che diventava umido e marroncino. Gli stavano dando l’aspetto di una pergamena, per regalarlo a una persona.
– Ah, hai un inciucio! – ho scherzato con Franco.
– Non è un inciucio – ha detto lui, serio. – E’ una donna di cinquantaquattro anni…

[..continua…]

Proporzioni

– C’è chi dice che l’uomo sia il massimo compimento della natura, la punta della piramide. Per altri invece la piramide è rovesciata, e l’uomo è il meno perfetto…
РPerch̩?
– Perché è l’organismo che dipende di più dagli altri – ha spiegato. Graziano parla lentamente con accento romanesco, soffiando ogni frase in un sospiro da saggio compassato e umile. Ha una sessantina d’anni, occhietti vispi e ogni tanto un sorriso sornione, stanco e furbo insieme. Passa i pomeriggi giocando a carte con la moglie, un donnone ironico con labbra grosse e trucco forte.
Gli altri pazienti chiamano Graziano “colonnello”. E’ laureato in matematica e ha studiato legge all’accademia militare. Credo sia veramente un ufficiale. Non avevamo mai parlato moltissimo, ma quando mi vedeva studiare in sala informatica mi chiedeva sempre cosa stessi leggendo.
– Montaigne – avevo risposto quel giorno. Non so bene come siamo arrivati, poi, da lì alla Perfezione, passando per un lungo discorso pieno di citazioni e buon senso. Il mio collega serviziocivilista taceva, stravaccato sulla sedia accanto a me, non so se annoiato o stranito. Io ascoltavo, per lo più, un po’ per non palesarmi troppo ignorante, un po’ perché osservarlo era molto più interessante che contraddirlo su qualche cavillo teorico. In effetti, non diceva chissà quali originali verità – o sarà che tutti i gruppi cattofilosofici che ho frequentato hanno inflazionato ogni repertorio di opinioni – ma le diceva con una carismatica e quotidiana saggezza, che mi affascinava.

– Dipende cosa intendiamo… cos’è la perfezione? – gli ho chiesto.
– E’ l’equilibrio, la proporzione. L’hai studiata la sezione aurea, sì? Ecco… ma anche quando vediamo una bella donna… è bella perché è proporzionata, ci piace se ha le gambe lunghe, un collo ben fatto…

Ho sorriso un po’ amaramente, senza contraddirlo.
D’altra parte, sorridevo amaramente proprio perché sapevo di non poterlo contraddire.

Stereotipi

– “Mi dà gioia poter lasciare un sorriso a persone sfortunate…” Uh, è proprio un poeta tenerone…
L’ho guardata storto. Stava leggendo le risposte del mio collega a un questionario sulla valutazione del proprio lavoro. Se c’è una cosa che il mio collega non fa mai è sorridere gioiosamente. E’ un ragazzo dalle occhiaie scavate che in genere scrive su facebook quello che trova cercando “frasi belle” su Google.
– …Dài, sono frasi fatte – ho risposto tra i denti.
– Come?
– Niente
– …Sì, certo che sono stereotipi – ha sorriso la mia capa. – Noi viviamo di stereotipi. Credi che non lo siano, in senso opposto, le tue mail in cui fingi di essere cinica?

Questa donna mi frega sempre.

Così parlate – 4

– Come l’hai trovato? – mi ha chiesto suo padre, in ascensore.
– Bene, molto bene – ho risposto. Cominciavo a capire come mai aveva insistito perché restassi sola con lui.
– Parla di più – ho continuato – mi ha detto un po’ come sta, come si vede in questa situazione…
– Io non lo so, può darsi che abbiamo sbagliato – ha ammesso con umiltà – ma chi era mai capitato in questa situazione…. L’errore l’abbiamo fatto all’inizio, lo abbiamo accontentato troppo, ora si è abituato e non vuole fare da solo…
Il babbo di Angelo capiva. Capiva sporcando la comprensione di sensi di colpa e complessi di inadeguatezza, ma ci metteva tutto se stesso. Io, presuntuosamente, volevo aiutarlo a capire.
– Sai… lui è molto orgoglioso eh – prendiamola alla larga. E’ un odioso consiglio non richiesto, e farà male.
– Eccome…
– …E anch’io sai… quindi lo capisco… forse per uno così non fa bene sentirsi sempre dire che è pigr..
– Ma è che lui potrebbe fare – si è scaldato, mentre mi aiutava a chiudere le porte del terzo piano – quando è arrivato qui gli avevano detto che avrebbe mosso solo la testa, poi invece gli è uscito il movimento del braccio, poi l’altro… e se non avesse il movimento, direi vabbè, è andato, ma dato che ce l’ha, perché non vuole fare un po’ di fisioterapia…?

Ho aspettato che la sua frustrazione straripasse fino in fondo, elencandomi per l’ennesima volta tutte le possibilità che Angelo spreca ogni giorno. E’ un peccato, pensavo: quest’omone tenero trasuda buona volontà e affetto per Angelo, si vede che si tormenta e pensa sempre a come dovrebbe fare. Ma non trova – chi riuscirebbe? – a trovare il confine tra i suoi bisogni e quelli del figlio, è completamente sopraffatto. Non riesce nemmeno a recepire un messaggio senza sovrascriverlo con la sua sofferenza.
– Certo, è che vedi – ho spiegato, pesando la diplomazia in ogni sillaba – mi è sembrata proprio un esigenza che esprime lui stesso – come farti capire che me l’ha detto chiaramente poco fa? – quella di non sentirsi ripetere sempre quello che non fa… è una cosa che metterebbe in difficoltà anche me, capisci. Io onestamente lo vedo: tutte le volte che vengo a trovarlo, qualcuno inizia a rinfacc..
– Ma io non è che glielo dico per me, è per lui – ha continuato, gesticolando la propria innocenza – gli ho comprato i pesi, gli faccio fare io la fisioterapia in più, insomma, io tutte queste cose le ho fatte, fai pure tu qualcosa per babbo
Meno male che lo fa per lui.
Era ora di guardarlo negli occhi e metter fine alle perifrasi.
– Senti – gli ho detto con serietà – darsi una mossa è una cosa che deve venir fuori da lui. Finché gli dite cosa dovrebbe fare, è ovvio che lui penserà di farlo per voi.
Mi ha guardato un po’ perplesso. Ci stava pensando. Mi sono affrettata a chiudere il discorso, perché continuasse a pensarci.

Così parlate – 3

– Come… come te la immagini la tua vita futura? – gli ho chiesto.
– Non lo so – ha scosso la testa. – Non la immagino. Prima, quando ci siamo comprati la macchina con la pedana, e si parlava di tornare a casa… ci pensavo spesso, ero contento… ora non so, ho smesso di pensarci, forse ho paura di restare deluso… perché la data reale del ritorno si avvicina.
Non ho risposto. La televisione ha detto qualcosa, poi è entrata la moglie del paziente accanto, con in braccio il suo bambino color caffelatte. Angelo si è illuminato e ha cominciato a fargli versi e boccacce. Coi bambini si diverte un sacco.
– Tu hai fratelli? – mi ha chiesto poi.
– Una sorella più grande
– Sposata?
– No no
– Fidanzata
– No.. cioè non lo so.. ognuno si fa un po’ gli affari suoi – gli ho spiegato – ecco, su questo la mia famiglia è un po’ diversa dalla tua… invece mio padre è uguale al tuo nel rinfacciare le cose
– Oh, ma tutti rinfacciamo – ha risposto, con uno strano tono saggio. Era proprio la serata della comprensione.

– Sai – ha continuato lui – penso che se non mi fosse successo questo forse avrei preso una brutta strada.
РCio̬?
– Eh… stavo in discoteca fino al mattino… facevo cose che non dovevo fare – ha spiegato vagamente. – Poi gli amici. Quelli con cui ho fatto le cavolate li consideravo amici, e mo’? Spariti. Gli altri invece… quelli che sì mi salutavano e io li salutavo appena, ma così, non me ne fregava niente, beh loro mi chiamano sempre… poi vabbè bisogna vedere cosa succede quando torno eh

Ci pensavo spesso anch’io, guardandolo nelle foto di prima. Un’occhiata al filmino di fotografie che teneva nel computer era più chiarificatrice di mille colloqui psicologici. Un fighetto che aveva mollato la scuola e andava avanti con un po’ di fascino da sbarbino strafottente avrebbe dovuto ribaltare del tutto le amicizie, lo stile di vita, la visione di se stesso. Chissà cosa pensava dei disabili, prima.

[…continua…]