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Valerio Magrelli, Ecce video

Ecce Video I.

In memoriam E. H.
ritrovato nel suo appartamento
nove mesi dopo il decesso
seduto davanti alla tv

Morì fissando il suo Televisore
la sfera di cristallo del presente,
guardava il Niente e ne vedeva il cuore,
cercava il Cuore e non vedeva niente.

Chi sfidò il lezzo del buio malfermo
si accorse che veniva dall’Illeso,
non dal Morto, ma dal Morente Schermo,
non dal Corpo, bensì dal Video acceso.

Carogna divorata dagli insetti,
il Monitor frinisce e brilla breve
senza più palinsesti e albaparietti.

La Sua vita larvale svanì lieve
(goal, quiz, clip, news, spot, film, blob, flash, scoop, E.T.),
circonfusa di niente, effetto neve.

Giorgio Caproni, Concessione

Buttate pure via
ogni opera in versi o in prosa.
Nessuno è mai riuscito a dire
cos’è, nella sua essenza, una rosa.

Guido Gozzano, Alle soglie

I.

Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,
mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo,

pur chiuso nella tua nicchia, ti pare sentire di fuori
sovente qualcuno che picchia, che picchia… Sono i dottori.

Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali segni,
m’auscultano con gli ordegni il petto davanti e di dietro.

E sentono chi sa quali tarli i vecchi saputi… A che scopo?
Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli.

“Appena un lieve sussulto all’apice… qui… la clavicola…”
E con la matita ridicola disegnano un circolo azzurro.

“Nutrirsi… non fare più versi… nessuna notte più insonne…
non più sigarette… non donne… tentare bei cieli più tersi:

Nervi… Rapallo… San Remo… cacciare la malinconia;
e se permette faremo qualche radioscopia…”

II.

O cuore non forse che avvisi solcarti, con grande paura,
la casa ben chiusa ed oscura, di gelidi raggi improvvisi?

Un fluido investe il torace, frugando il men peggio e il peggiore,
trascorre, e senza dolore disegna su sfondo di brace

e l’ossa e gli organi grami, al modo che un lampo nel fosco
disegna il profilo d’un bosco, coi minimi intrichi dei rami.

E vedon chi sa quali tarli i vecchi saputi… A che scopo?
Sorriderei quasi, se dopo non fosse mestiere pagarli.

III.

Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,
mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo,

mio cuore dubito forte – ma per te solo m’accora –
che venga quella Signora dall’uomo detta la Morte.

(Dall’uomo: ché l’acqua la pietra l’erba l’insetto l’aedo
le danno un nome, che, credo, esprima un cosa non tetra.)

È una Signora vestita di nulla e che non ha forma.
Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma.

Tu senti un benessere come un incubo senza dolori;
ti svegli mutato di fuori, nel volto nel pelo nel nome.

Ti svegli dagl’incubi innocui, diverso ti senti, lontano;
né più ti ricordi i colloqui tenuti con guidogozzano.

Or taci nel petto corroso, mio cuore! Io resto al supplizio,
sereno come uno sposo e placido come un novizio.

Valerio Magrelli, Elegia

L’uomo passa all’uomo penuria.
Si approfondisce come un’insenatura.
Esci prima che puoi,
E non aver figli tuoi.
P. Larkin

Se tutto ciò che cresce e brucia è brace,
amore è visione del rogo.
Pensa all’estate,
che nasce dissanguandosi
in una sorridente emorragia di luce.
Ciò che ti è caro muore, ciò che muore
ti è caro, se qualcosa ti è caro,
è perché muore. Ed ecco il corollario:
“Ciò che ti è caro, è solo la sua morte”.
E’ sera, nella stanza dei miei figli.
Disteso accanto a loro, li ascolto cinguettare.
Un bosco al buio. Posano
sui miei rami il peso caldo e vivo della voce,
un peso-volo trepidante.
O devo credere che siano solo le punte
incandescenti di un fuoco mezzo spento,
crollato, mezzo freddo, di un tizzone
già nero e muto, già muto,
mezzo morto?

Continuo a sfiancarmi in cyclette,
ma dove vado? Vibra l’impiantito
di casa, nel vorticare convulsivo, immobile.
Ma dove vado? Vado nella musica,
parto in salita, tiro la volata
sul Walhalla dei suoni che si schiudono
davanti a me, mentre lo stereo-Fafner
vomita fuoco e fiamme.
Legato alla catena di montaggio della salute,
faccio il ventilatore,
sono il mulo alla macina che produce benessere
e giro perché giri il sangue mio
(gira, gira il derviscio, ma da fermo). Ah,
schiavitù di questo sangue infermo!
Non potresti girare da solo?
Niente; sta a me, badante di me stesso, portarlo in giro.
Forse, però, sto andando contromano:
ciò spiegherebbe perché tutta la musica mi viene addosso,
invece di sospingermi. Mi ostacola, l¹infame,
quando potrebbe aiutarmi a scavallare
questo dosso, che non finisce mai.
Pesano, certe raffiche di arpeggi,
e sudo e bestemmio in piedi sui pedali
lungo il velodromo della mia stanzetta, buio
come una galleria del vento.
Visto da fuori, devo sembrare un alienato.
Visto da dentro, pure.

Nota. Questa poesia nasce dal terrore che accompagna ogni felicità, dalla
sensazione della sua spaventosa vulnerabilità. Quanto ai versi di Larkin,
che ho ritradotto, mi seguono da anni: ho deciso di impiegarli come esergo,
perché ai miei occhi essi indicano il divario tra ciò che sarebbe stato
giusto e ciò che invece è stato vero.

Massimo Orgiazzi, Le cose rimaste intatte

Cos’è questa speranza
che va oltre le partite a scopa d’assi,
oltre i tuoi messaggini di ripiego?
C’è il sonno dopo pranzo
ora, un’insonnia che s’insinua cieca
tra le pieghe di questo stesso letto.
Ci sei tu che mi squadri per quell’asso
giocato male e, prima,
le passeggiate insieme
là sulla spiaggia, i miei baffi di sabbia.
L’assetto delle cose rarefatte
è mischiare ricordi ad esigenze,
rimuovere paure, ed acquisire
resistenze
;
il quadretto delle cose
rimaste intatte è dato da te,
invece: porti addosso
come abiti gli standard femminili
di questo tempo,
quando mi guardi e a scatti ti rivolgi
al mare, sempre più finto. Virtuale.
Poi, china, scrivi attenta al cellulare,
mandi via i tuoi pensieri.
Sempre gli stessi.
Cos’è questa speranza,
vorrei me lo scrivessi.

Come possiamo amare…

Come possiamo amare
due cose
in perfetta contraddizione fra loro
e che si escludono a vicenda?
Io le ho amate tutte e due
per amore della vita.

(A. Palazzeschi, Via delle cento stelle)