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Umberto Saba, Un ricordo

Non dormo. Vedo una strada, un boschetto,
che sul mio cuore come un’ansia preme;
dove si andava, per star soli e insieme,
io e un altro ragazzetto.

Era la Pasqua; i riti lunghi e strani
dei vecchi. E se non mi volesse bene
pensavo e non venisse più domani?
E domani non venne. Fu un dolore,
uno spasimo verso la sera;
che un’amicizia (seppi poi) non era,
era quello un amore;

il primo; e quale e che felicità
n’ebbi, tra i colli e il mare di Trieste.
Ma perché non dormire, oggi, con queste
storie di, credo, quindici anni fa?

Domenico Lombardini, da I motivi dietro

[…]
come se ad ogni carezza, data e ricevuta,
si sentisse: guai a te, non credere sia banalità.
 
correndo tra le dita rivoli di sabbia. inutile
stringere, la stretta teme la caduta,
la provoca. presto, un po’ di acqua,
ché s’ingrassa la sabbia, si deve,
poi le dita si acqueteranno.
la presa indulge ancora, si allenta infine.
e alla pace, nel precordio umido
di ciò che valse, quando mani e piedi
nel liquido viscoso informavano, corrispose
l’occhio stupefatto, poi il presentimento
di disfatto – la mano vuota.

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Patrizia Cavalli, Eravamo tutti perdonati

Eravamo tutti perdonati.
Perché l’aria ci assorbiva
nella sua temperatura. La testa
pigiata di lato, la guancia che tocca
la spalla e quasi l’accarezza. Liscio
il respiro, sollevato volante.
Il cuore pattinava controvento.
Oh varietà! Oh insieme!
Ogni strada è felice
se una pioggetta tiepida
intimidisce la luce
e la costringe a spargersi
senza predilezioni.
Più che perdono. Eravamo accolti.

Giuseppe Ungaretti, Fase d’oriente

Nel molle giro di un sorriso
ci sentiamo legare da un turbine
di germogli di desiderio

Ci vendemmia il sole

Chiudiamo gli occhi
per vedere nuotare in un lago
infinite promesse

Ci rinveniamo a marcare la terra
con questo corpo
che ora troppo ci pesa

Giorgio Caproni, Congedo del viaggiatore cerimonioso

Amici, credo che sia
meglio per me ricominciare
a tirar giù la valigia.
Anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.
Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi,
per l’ottima compagnia.

Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite, è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.
Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte;
così bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette,
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio) confidare.

(Scusate. È una valigia pesante
anche se non contiene granché:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare.
Ecco. Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare).

Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo – odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.
Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te, ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m’ha chiesto s’io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al "vero" Dio.

Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.

Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.

Scendo. Buon proseguimento.

Giuseppe Ungaretti, Fratelli

Di che reggimento siete
fratelli?
 
Parola tremante
nella notte
 
Foglia appena nata
 
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
 
Fratelli

Giuseppe Ungaretti, Natale

Natale 

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

Simone Lago, Il nordest è una bomboniera

(I sorpassi si susseguono in questa stanza:

cimeli della comunione e della cresima

deragliano su mensole più in alto, in seconda fila,

mentre in basso succedono avvenimenti,

quelli più nefasti)

“Che roba xea co’ chea piva” fa mia madre

di fronte a un narghilé da Djerba nuovo:

“lascia stare -no- non puoi capire” e pure io

penso, dato che non c’ho mai pipato dentro

che non so come si faccia coi tocchi di carbone

e il tabacco al miele che non prende.

E un po’ sorrido quando fa “mòeghea

co’ chel tamburo che te sveji la nona”

ed è un bongo senegalese firmato Niass.
Ogni tanto però lo sguardo di mio padre

se avesse studiato direbbe che

quest’ invasione di souvenir non fa

il nostro gioco.

Che di multiculturale c’è solo

lo sbraitare del mercante, come a Istanbul

così a Mestre,

che insomma tutti ci fanno il pane

con le cose che danno a intendere.
Ma tutto questo lo traduce in una smorfia

obliqua della bocca con un lento

dondolìo del capo;

e io lo capisco, e gli voglio bene

ma non darei due soldi alla mia versione.
Pure inutile sarebbe dire che si cresce

che c’è voglia di abbandonare la stalla

che nei ’70 è diventata un’impresa plastica

durata finché è durato questo distretto

marshalliano;

‘spiace dirlo ma i miracoli

non sono eterni e soprattutto

qui al nordest dove -insomma- si fa il pane

con le cose che si danno a intendere.
Perciò le mensole si vestono di feticci

di smanie etniche e culturali,

degli occhi svelati di una mediorientale

che prende il çay in una laterale di Haliç street.
E il sorpasso fosse allora un’inversione

di tendenza, il dire finalmente che ci siamo

rotti le palle di questi schei.

Che coi schei

abbiamo comprato le bomboniere, pagato

il vescovo e il prete quel giorno e dentro

non m’è rimasto niente, madre, che anni fa

come hai visto ti ho risposto male e maledetto,

e hai temuto facessi come Pietro Maso.
Non ci faremo il pane con la voglia d’evadere

né il montenegro in piazza Castelfranco;

probabile sì, finiremo a fare a botte in sagrato

cogli albanesi e i magrebini, a dividerci lo spazio

sopra gli eternit per guardare un po’ più lontano.

(Simone Lago ha anche un blog) 

Giuseppe Ungaretti, Nasce forse

C’è la nebbia che ci cancella

Nasce forse un fiume quassù

Ascolto il canto delle sirene
del lago dov’era la città

Giovanni Giudici, Una sera come tante

Una sera come tante, e nuovamente
noi qui, chissà per quanto ancora, al nostro
settimo piano, dopo i soliti urli
i bambini si sono addormentati,
e dorme anche il cucciolo i cui escrementi
un’altra volta nello studio abbiamo trovati.
Lo batti col giornale, i suoi guaiti commenti.

Una sera come tante, e i miei proponimenti
intatti, in apparenza, come anni
or sono, anzi più chiari, più concreti:
scrivere versi cristiani in cui si mostri
che mi distrusse ragazzo l’educazione dei preti;
due ore almeno ogni giorno per me;
basta con la bontà, qualche volta mentire.

Una sera come tante (quante ne resta a morire
di sere come questa?) e non tentato da nulla,
dico dal sonno, dalla voglia di bere,
o dall’angoscia futile che mi prendeva alle spalle,
né dalle mie impiegatizie frustrazioni:
mi ridomando, vorrei sapere,
se un giorno sarò meno stanco, se illusioni

siano le antiche speranze della salvezza;
o se nel mio corpo vile io soffra naturalmente
la sorte di ogni altro, non volgare
letteratura ma vita che si piega nel suo vertice,
senza né più virtù né giovinezza.
Potremmo avere domani una vita più semplice?
Ha un fine il nostro subire il presente?

Ma che si viva o si muoia è indifferente,
se private persone senza storia
siamo, lettori di giornali, spettatori
televisivi, utenti di servizi:
dovremmo essere in molti, sbagliare in molti,
in compagnia di molti sommare i nostri vizi,
non questa grigia innocenza che inermi ci tiene

qui, dove il male è facile e inarrivabile il bene.
È nostalgia di un futuro che mi estenua,
ma poi d’un sorriso si appaga o di un come-se-fosse!
Da quanti anni non vedo un fiume in piena?
Da quanto in questa viltà ci assicura
la nostra disciplina senza percosse?
Da quanto ha nome bontà la paura?

Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura
che dice: domani, domani… pur sapendo
che il nostro domani era già ieri da sempre.
La verità chiedeva assai più semplici tempre.
Ride il tranquillo despota che lo sa:
mi numera fra i suoi lungo la strada che scendo.
C’è più onore in tradire che in essere fedeli a metà. [1]