Blog Archives

E quindi il mondo non è finito

questo 21 dicembre,
né, in effetti, ho potuto tirare le fila di serenità ormai irripetibili (2010);
non ho rischiato le penne giù da una discesa ghiacciata (2009),
certamente non ho sfiorato la nostalgia di lei, ormai un confuso ricordo tra i tanti (2005),
né ho attraversato la neve per imbucare lettere d’amore inconsapevoli di esserlo (2004),
e tantomeno sono esplosa di gioia – non potrei più, non come allora – per un misero, primissimo affetto (2003).

[Sono passati nove anni, accidenti, da quando ho incartato un ti voglio bene dentro un regalo qualunque (un paio di guanti presi a caso da un cassetto, se non sbaglio) e ho aspettato per ore una risposta, un rimbalzo indietro dell’affetto. Non mi ero mai esposta in quel modo, prima (aspettavo congelando, sullo spiazzo dell’oratorio, dev’essere stato il giorno in cui il Gruppo lavava le macchine e io badavo al tè caldo, lo stesso giorno in cui una signora sconosciuta si fermò a dirmi che avrei dovuto sorridere di più) e mi rimbombava il batticuore in tutto il corpo – se solo avessi saputo dare un nome vero a quei sentimenti, figuriamoci, sarei schiattata sul posto.
Poi quel messaggino arrivò, gentile, affettuoso (l’avrò scritto? Dove? Com’è possibile che non avessi ancora un blog? Non posso dimenticare anche questo), probabilmente poco significativo – ma io non lo sapevo ancora.

L’anno dopo era già una mancanza. E’ strano rileggermi adesso; anche allora ero bravina a scrivere, abbastanza perché quelle righe possano scuotermi ancora oggi, trasmettendomi un po’ di quella sensazione. Certe cose non tornano più, ascoltavo, sublimando la mia perdita in una specie di rassegnazione cosmica sulla fuga del tempo (in quel caso era più facile: non era colpa mia).]

Questo 21 dicembre ho semplicemente dato un esame con buona soddisfazione, incrociato una compagna gentile (magari diventiamo amiche?), passato la giornata alla ricerca di un regalo – ma tu guarda -, per poi affondare nel letto con un telefilm mediocre.

[E una temporanea tregua dalle nuove nostalgie, sssh, devono esserci lì dietro, incombono alle spalle, ma per un pochino, un pochino soltanto, eviterò di voltarmi, concedetemelo, per sopravvivere –
anche perché forse hai ragione, e se fosse
come quelle di cui parlava C.?]

Devo dire che non è così male.

Tristezza

Non la puoi dire veramente a nessuno, perché si spaventerebbero, o li annoieresti.

Quando arriva hai fame ma non riesci cucinare, devi studiare ma non riesci a studiare,
allora ti butti sul letto e resti a sentirla, a crogiolartici dentro. Non è che puoi a fare molto altro.

Le immagini si mescolano, non capisci più se è la nostalgia, l’infanzia, o cosa. Un ricordo richiama l’altro, e non è nemmeno chiaro se sono loro a provocare la tristezza, o se è la tristezza a tirarli fuori, per cercarsi una giustificazione qualsiasi. Ti ci soffermi finché riesci a circondarti di ciò che non esiste più, ma sembra vivo, possibile, è lì con te e ti rassicura come un capriccio soddisfatto. Popoli l’immaginazione dei tuoi desideri e ti ci aggrappi, li stringi fino a crederci abbastanza da vederli, senti crescere quel sentimento artificiale e ti abbandoni, ti lasci invadere da una sterminata gioia, ti commuovi, piangi come fosse vero.

Dopo un po’ non funziona più, quasi che le immagini fossero consumate. Prendi uno dei soliti ricordi, cerchi di sentirlo, di goderne l’intensità drammatica, aspettando il nodo in gola. E invece arriva solo una stanchezza, non hai nemmeno voglia di pensarci, non riesci più a sentirli come prima.
Resta solo una specie di alone grigio attorno, e la sensazione di aver scorto, per un attimo, un cupo buco nero
di cui non vedi il fondo.

[Da lì, lentamente, si risale. Torna la voglia di fare qualche piccola cosa, si accende il pc, si apre uno spazio per qualche nuovo pensiero – sempre teso, sempre in lotta per non lasciarsi sopraffare]

E qui finisce

il mio venticinquesimo anno.
Venticinque. Venticinque sono troppi, indiscutibilmente troppi. Quelli di 25 anni erano ormai grandi, sicuri di sé, facevano anche un po’ paura,
e comunque già lavoravano, o avevano un progetto nella vita, un moroso stabile o che ne so.

Mica come me. Io ho appena iniziato a vivere, sarà uno, due anni, toh. Mi sento ancora lontanissima dai grandi, continuano a farmi paura,

ma soprattutto,
ho bisogno ancora di tempo, tanto tempo, e venticinque significa che sono già passati, persi,
e per lo più buttati nel cesso, eppure sono tantissimi, se va bene ne vivrò altrettanti solo due volte, o poco più.

E poi: se divento grande, devo cambiare prospettiva. Già un po’ sento che sta succedendo.
Che altre cose iniziano a diventare importanti,
oltre alla solita corsa ad essere amati.

Tipo, il lavoro. Da un po’ lo cerco compulsivamente anche se non ne ho bisogno,
– servirebbe giusto per godermi la vita senza sensi di colpa –
e l’altro giorno, a tirocinio, c’è stato quel momento in cui mi sembrava finalmente di fare una cosa appassionante.

Per non parlare della casa, che tra un po’, temo, dovrò trovare
– e confesso che un po’ mi sogno ad arredarla.

Però ecco, venticinque sono proprio tanti,
sono tanti per strozzarsi con quel nodo in gola di fronte a ogni relitto dell’infanzia,
tanti per avere paura dei genitori e degli adulti,
e senz’altro troppi
per averli vissuti così poco.

.

Non credo di poter immaginare come ci si senta,

ma dev’essere proprio una merda.

Piccolo Bi, ti abbraccio forte.

Notti

Svegliandomi alle tre sono rimasta a guardare un po’ di notte, il mio piccolo bosco domestico.
All’inizio lo attraversavo lentissima per guardarlo più a lungo, mi sembrava così strano avere un parco privato dove potermi attardare col buio, senza guardarmi le spalle.

C’è stata una notte che potevo guardare solo dall’alto. Iniziava sull’orizzonte coi minuscoli grattacieli della fiera, proseguiva col buco buio della montagna del rusco, poi il profilo di mille luci e lucine che sapevo a memoria – se ne spuntava una nuova me ne accorgevo subito – per finire in grosse ombre nella casa del contadino. Ho immaginato per anni di andarci, sognavo di ritrovarmi in un luogo finalmente da sola, decidendo da me l’andatura, le soste, quando sdraiarmi sul prato. Quel pezzo di campagna abbandonata era il simbolo del mio non poter andare, era di certo l’ultimo posto dove avrei mai potuto restare la notte da sola.

Poi c’era la notte ristretta della casa in Sicilia, un rettangolo fatto apposta per frustrarti: di qua la casa, di là un dirupo, e perfino il paesaggio – fantastico, sul golfo – non potevi vederlo, completamente coperto dagli alberi. C’era, poco più in là, un angolo dove l’orizzonte si apriva, finalmente scoperto, ma andarci era un premio, una rarità: quei pochi metri di stradino troppo sconnesso…
Così mi illudevo di essere sola restando davanti alla porta, allenandomi a trovare le stelle, mentre gli altri erano già a letto. Avevo inventato le mie costellazioni, non conoscendo quelle vere, e le ritrovavo sempre. Ero adolescente, mi struggevo per una mancanza – ma dai! – e passavo ore in conversazioni immaginarie con gente che non c’era, che non ci sarebbe più stata, e che – impensabile, allora – avrebbe perso importanza.

Da qualche anno, finalmente, è arrivata una notte facile. Ci parcheggi la macchina, la attraversi comodamente su un vialetto di foglie, incroci ricci, picchi e talvolta una civetta, e d’estate ci puoi anche dormire. Rimane ad aspettarti appena fuori dalla porta, basta un gesto per ritrovarla, silenziosa, sotto gli alberi. Puoi passeggiarci anche alle quattro del mattino, dopo averla trascorsa in confidenze con un tè e una vicina.
E’ la prima notte su cui si è affacciato qualcuno che dormiva con me, ed è la notte in cui è andato via.

Anche io dovrò andare via, tra qualche mese.
In effetti le altre notti, che credevo non avrei mai potuto abbandonare o sostituire, non mi sono mai mancate davvero. Forse perché quelle nuove erano sempre un po’ migliori, più eccitanti, costellate di nuove possibilità, e alle vecchie non avevo tempo di pensare. Dev’essere come la vita in generale, per un po’ riesce anche migliorare, ma a un certo punto raggiungi un livello oltre il quale non vai.

E allora inizi seriamente a perdere.

Bellezza

Uscendo da tirocinio avevo sullo stomaco
la crisi economica, la gente senza casa, io senza casa, A. che ride senza capirmi

ma c’era un’aria tersa, mentre guidavo ho messo su la musica giusta,

e mi è sembrata davvero bella, così ho pensato che forse l’arte è più indispensabile quando si è tristi.

Foglie

Ho guardato le foglie nel vento in modo diverso,
stanotte,
quasi stessero davvero cadendo
per l’ultima volta.

[Lo so, anche questo non mi capiterà mai più. Mai più tornare a casa di notte
su un tappeto di autunno bagnato, dentro una pioggia di foglie.
Sapevo che sarebbe successo, prima o poi
– forse per questo ho sempre conservato, per il mio parco, un affettuoso stupore
e so di essere stata fortunata a godermelo,
anche solo per un po’.

Mi sa che questo è proprio l’anno
in cui si impara la separazione.]

La strada non presa

Forse dopo una certa età non si può più essere felici.
Felici in quel modo totale, pieno, completamente leggero,
di quando puoi soffermarti su ciò che ti circonda, anche a lungo, senza trovare mai
nulla, proprio nulla di preoccupante o perduto.
Puoi fare l’inventario degli amici, dei desideri, degli obiettivi raggiunti, dei cambiamenti,
dei ricordi, senza che nessuno di loro ti stringa lo stomaco. Tutto è a posto,
deve solo essere vissuto.

Forse un periodo così, semplicemente, non potrà più tornare. Si è affacciato per qualche breve periodo,
in passato, ed è stato fantastico.
Ma ̬ finito. Sono di nuovo alle prese con le gobbe nel giardino Рe io che pensavo di averle appiattite alla fine del liceo.
Ho fatto appena in tempo a dimenticare come gestirle, ed ecco spuntarne una nuova, enorme,
chissà quante volte dovrò passarci, prima di livellarla.

C’è qualcosa di consolante, in questo pensiero. Dà alla sofferenza una forma, una plasticità inevitabile e concreta. La trasforma da malattia, contro cui si lotta per guarire, a disabilità, con cui si impara a convivere. Ci resti vicino tutti i giorni, finché inizia a capitarti di dimenticarla.

E allora la felicità non è l’assenza di ragioni per deprimersi, è un barlume di distrazione.
Quando ci penso visualizzo sempre la faccia di un vecchio che sorride. Non so, mi rappresenta qualcuno che non è certo felice perché non veda dolore, ma perché, proprio avendone visto parecchio, si commuove sorpreso da una qualche bellezza che interrompe lo schifo.
Forse la felicità dopo i 24 anni è una felicità nonostante.

Mi ricorda un po’ il periodo post-violinista. La pensavo così anche allora, all’inizio. Mi sforzavo, ricolma di cattomoralismo, di vedere i fiori tra le pietre. Portavo con me la mia tristezza, tutti i giorni, e mi commuovevo per le piccole cose che la interrompevano. Andavo al parco dietro casa sua e mi consolavo con la bellezza di quei rachitici alberini – e della mia libertà. Sorridevo sospirando, e mi sentivo anche un po’ eroica, come se tornassi acciaccata da una dura battaglia.

Adesso non posso nemmeno fare la vittima, maledizione.

Non saprei a chi dare la colpa, se non alla fortuna di avere sempre più strade da scegliere
con l’obbligo implicito di abbandonare, ogni volta,
la strada non presa.

Chiama i ricordi col loro nome

volta la carta

e finisce in gloria.

Ritrovamenti

Da quanto tempo non parlavamo fino a quest’ora? :)

(E forse ho capito: l’alcol mi addormenta solo alle feste)

[Giusto qualche giorno fa, riflettendo tra me e me, mi ero detta: no, non è più come una volta]